Maria Luisa Boccia è una donna da sempre impegnata per le cause sociali e per le battaglie sui diritti. Docente e scrittrice, con una propensione particolare al tema del femminile nella politica e nella società, è stata anche, fino alla scorsa legislatura, senatrice della Repubblica. Ha preso a cuore la condizione dei detenuti, e si è impegnata per restituire a loro dignità e condizioni di vita decenti. In contatto, tra l’altro, con il nostro Carmelo Musumeci, che mi fatto avere un suo testo dedicato alle battaglie degli ergastolani.
Ed è illuminante quando lei pone la questione del valore “intrinseco” di ogni singolo essere umano, e della necessità, quindi, della “concretezza”. Perché uscire dall’eterno conteggiare costi, benefici, vivi e morti è il primo passo per la possibilità di essere realmente umani. Non esiste il “problema” degli ergastolani. Esistono gli ergastolani. E ognuno di essi è un Volto. Finché cerchi di risolvere il “problema”, vedi ancora le tue teorie e i grandi numeri. E puoi considerare sacrificabile una causa che non presenti milioni di vittime. Ma è quando “riconosci” il singolo uomo, il singolo ergastolano, che comprendi come le statistiche non bastino più, e che non si dovrebbe voltare la testa, neanche se ne fosse rimasto solo uno. Come scrive nel testo più sotto Maria Luisa Boccia:
“Dovremmo guardare alle singole vite deprivate per sempre di dignità umana. Se anche fossero poche, pochissime, sarebbe comunque un costo troppo alto.”
Ho dovuto procedere a qualche taglio. Essendo un testo inusuale per il blog, la lunghezza originaria rischiava di allontanare alcuni lettori da questa “incursione” da un punto di vista sociale e politico. La “riduzione” non rappresenta quindi una mancanza di interesse per le parti tolte, ma la volontà di rendere il testo leggibile da un numero maggiore di persone, tenendo anche conto che è un genere di scritto che si differenzia dai contributi pubblicati finora.
Sono pagine che meritano. Specie tenuto conto della cappa di conformismo, viltà e acquiescienza che avvelenano la politica italiana. E hanno, tra gli altri meriti, quello di far vedere come ci sono persone che non accettano sirene-norcolettico e pensieri dominanti.
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In questi anni sono stati gli ergastolani a porre con forza ed intelligenza la questione dell’ abolizione dell’ergastolo. In particolare voglio ricordare la campagna “Mai dire mai” dell’autunno del 2007. Consisteva in una lettera al Presidente della Repubblica, di poche righe. “Io – seguiva il nome- chiedo che la mia condanna sia tramutata in pena di morte, perché sono stanco di morire un poco ogni giorno.”. Le lettere inviate furono moltissime, da quasi tutti gli ergastolani detenuti in carcere. Ne inviavano una copia anche a me, al Senato. E fu a seguito di una mia lettera che il presidente Napoletano rispose, rinviando al Parlamento di intervenire nel merito. Il quotidiano “La Repubblica” dedicò una pagina alla notizia, e la riprese successivamente con interviste e dati. Suscitando così reazioni ed interventi di altri giornali. Ne parlarono anche alcune tv e radio straniere. Allora mi colpirono le reazioni, pressoché univoche, di giuristi e politici sulla stampa. Con quegli argomenti, contrari all’abolizione dell’ergastolo, dobbiamo confrontarci ancora oggi.
Il primo argomento è che l’ergastolo è una condanna simbolica. Di fatto, si dice, non lo sconta più nessuno, grazie alle misure premiali di vario tipo. E’ del tutto falso. Nel 2007 gli ergastolani detenuti, erano 1.294, cifra fornita dal Ministero della Giustizia. Ed aumentano le condanne all’ergastolo, nonostante si registri una riduzione dei reati per i quali è previsto. Ma l’allarme sociale è tenuto vivo, con l’argomento che non c’è più certezza della pena. Si può delinquere anche in modo grave, dal momento che se pure si è processati e condannati, si resterà il carcere poco tempo. La prima urgenza, dunque, è quella di ristabilire la certezza della pena. Non solo. La pena deve essere alta, per dissuadere dal crimine. Insomma le leggi devono prescrivere più carcere, anche più ergastolo, i giudici devono emettere sentenze più severe, le condanne devono essere applicate senza sconti. Come ha osservato giustamente Patrizio Gonnella su Il manifesto, si vorrebbe trasformare tutti i detenuti in ergastolani.
E’ una deriva che si è manifesta. Se consideriamo la questione dell’ergastolo all’interno dell’ articolato sistema con cui si produce il “governo della paura”, attraverso lo scambio tra sicurezza – promessa- e libertà – limitata –, risulta evidente come per contrastarlo sia indispensabile modificare il senso comune. Viceversa da anni l’unica iniziativa che vi è stata è quella di presentare ad ogni legislatura proposte di legge per l’abolizione dell’ergastolo. Una riforma, ovviamente, indispensabile. Ma che non può realizzarsi solo con una maggioranza parlamentare. Anche oggi l’ostacolo principale non consiste nei rapporti di forza in Parlamento, del tutto sfavorevoli. Detto altrimenti non ci sarà mai una maggioranza favorevole all’abolizione se non cambia l’orientamento culturale nella società. Se non si mette al centro dell’iniziativa politica sull’ergastolo una diversa rappresentazione del carcere, in generale della pena. Bisogna spostare l’opinione pubblica, innanzitutto democratica e di sinistra, per poter cambiare le norme. Creando un circuito virtuoso tra cultura del diritto, cultura politica ed immaginario sociale. Da troppo tempo la sinistra ha abbandonato questa dimensione della politica. Più carcere, e pene più dure non servono a prevenire e reprimere. Ma a fabbricare paura, per ottenere consenso. E dunque la prima esigenza è quella di spezzare l’isolamento del carcere.
Per questo scopo il testo di Aldo Moro offre una serie di spunti, davvero straordinari. Perché parla il linguaggio della vita, della condizione umana, evidenziando i nessi con i principi di una civiltà del diritto. Quelli scritti nella nostra Costituzione.
“La pena – scrive Moro- è rivolta al passato. Non è richiesta da quello che potrebbe avvenire, ma da quello che è accaduto”. Quindi non ha alcuna funzione preventiva, o dissuasiva. E’ un’inversione a 360 gradi rispetto al clima in cui siamo immersi, per cui sembra che tutto si debba, e si possa, prevenire, grazie ad una più dettagliata definizione dei reati , e ad un pervasivo controllo sociale. Ed abbiamo dimenticato che lo Stato è autorizzato a punire solo in via eccezionale.. Solo come reazione a qualcosa che è accaduto. Non per governare situazioni e rapporti sociali sempre più complessi. Neppure per prevenire reati. Tantomeno per dissuadere soggetti “ a rischio” di commetterli.
La pena, continua Moro, è retribuzione mai vendetta. Sembra un’idea acquisita, condivisa dai più. Non è così. Basta pensare al coinvolgimento delle vittime e dei loro familiari nella discussione sulla giusta pena. Ad esempio per i provvedimenti di grazia. O sull’ amnistia per determinati reati. Ho molto apprezzato il recente disegno di legge dell’on. Sabina Rossa nel quale si propone di non condizionare più al parere dei familiari la concessione della grazia. Finché si continua a ritenere determinante, per considerare “equa” la pena inflitta la colpevole, il perdono, o il sentimento di giustizia delle vittime e dei familiari, la pena resta impregnata del gusto, amaro, della vendetta. E si stabilisce un circuito perverso tra sfera politica e sfera privata, poiché un atto istituzionale per essere legittimo deve essere approvato da privati cittadini.
Perversa è la confusione tra privato e pubblico, non certo la dimensione personale della politica. Non andrebbe mai dimenticato che la pena, quale essa sia, affligge una persona in carne ed ossa. Questo è il punto centrale della riflessione di Moro sulla pena, sul suo significato, la sua modalità, in una società modellata dalla civiltà del diritto. Per Moro la pena è meritata in quanto chi la patisce è un soggetto “libero e responsabile”. La pena, si badi, non solo il reato è ancorata alla libertà. Moro si interroga sulla posizione all’interno del consesso civile in cui viene a trovarsi chi ha compiuto un atto libero, ma vietato. E’ da questa prospettiva che definisce il significato e la misura della pena. La pena infatti è una limitazione della libertà. Come tale è sempre, soprattutto, un intervento sulla persona. Questo aspetto non può essere né rimosso, né alterato da altre considerazioni. Come ad esempio la funzione sociale di dissuasione rispetto ai potenziali colpevoli; o quella di risarcimento rispetto alle potenziali vittime; o quella di rassicurazione rispetto ad un opinione pubblica, a torto o a ragione allarmata.
Come privazione della libertà la pena non può che essere limitata. In alcun modo dovrebbe essere lesiva della dignità della persona. La condizione di soggetto libero e responsabile può essere fortemente ridotta, ma non del tutto cancellata. Per questo Moro insiste sulla “quantità e qualità della pena” , da stabilire per legge. Il margine di discrezionalità affidato al giudice non può essere troppo ampio, in un ambito così essenziale per la civiltà dei rapporti tra cittadini/e ed istituzioni, qual è quello del potere di una privazione di libertà.
La pena deve essere proporzionata, per quantità e qualità, perché diversamente dal reato che può essere disumano nella sua efferatezza, la pena non può essere né crudele né disumana. E’ quanto prescrive esplicitamente la Costituzione. Ma è l’argomentazione di Moro che merita interesse, per la stringente coerenza. Il presupposto della libertà responsabile opera nel giudizio di colpevolezza, e dunque nella legittimità della pena ed opera come criterio di proporzionalità della pena, per limitare la privazione della libertà, ovvero della stessa umanità della persona.
Per Moro come per gli ergastolani, protagonisti della campagna “Mai dire mai” l’ergastolo è una pena più crudele della pena di morte, perché è una privazione illimitata di libertà. Per questo il “fine pena mai” è una condizione di vita disumana. E’ privazione di vita, perché vivere senza libertà e senza responsabilità, non è vita umana.
Restando all’ergastolo.Si può vivere per sempre reclusi, senza essere privati di umanità? Come si vive senza nessuna possibilità di ritrovare i rapporti, gli affetti,la comunicazione e gli scambi con gli altri esseri umani, non reclusi, e con il mondo? E’ vita, o non è un morire senza fine? Penso che le brevi e secche righe della lettera degli ergastolani al capo dello Stato vadano prese sul serio. Non sono un espediente, utile a dare enfasi al problema dell’ergastolo. Descrivono una condizione vissuta, giorno dopo giorno. Ci dicono cosa sia, nella quotidianità, la pena senza fine. Come sia privo di senso vivere, se non si può neppure immaginare un domani.
Nessuno dovrebbe essere privato in modo così radicale della libertà. Di questo dovremmo parlare, per porre in concreto, il problema dell’abolizione dell’ ergastolo, Dovremmo parlare all’amore per la libertà che è in ogni essere umano. Trovare il modo di tradurre le questioni dal linguaggio del diritto a quello della vita. Perché di vite concrete, di persone incarnate si tratta. E’ quello che fa Moro per insegnare ai suoi studenti cos’è il diritto penale, e perché l’ergastolo non è giustificabile, per i principi del diritto come per quelli della vita.
E invece… siamo alla “macabra contabilità” del bilancio costi e benefici. Quanto ci costano le carceri piene, e quanto spendiamo per ogni ergastolano. Quanti sono gli ergastolani e quanti di loro scontano per intero la pena. Se la media degli anni vissuti in galera è di 40-50 anni, o invece di 30. In questo caso, perché abolirlo, visto che si è già realizzata la massima riduzione prevista nei disegni di legge? In fondo, anche accettando la cifra ufficiale, 1.294 non è un gran numero, in un mondo dove le cifre che colpiscono l’immaginazione si aggirano sulle centinaia di migliaia, se non sui milioni.
Come Moro dovremmo guardare alle singole vite deprivate per sempre di dignità umana. Se anche fossero poche, pochissime, sarebbe comunque un costo troppo alto. E’ un principio fondamentale della democrazia liberale che una norma deve essere abrogata se anche uno solo ne patisce iniquamente. E che la qualità di un ordinamento giuridico si misura sulla condizione delle minoranze, non della maggioranza.
Se anche una sola vita patisce una pena disumana, in contrasto ad ogni principio di giustizia, deve interessarci. Perché è colpito un bene indivisibile qual è la libertà personale. Sono convinta che se sapremo parlare il linguaggio dell’amore per la vita e per la libertà potremo spezzare la spirale paura-sicurezza che porta ad un ricorso crescente al penale, all’innalzamento delle pene ed inasprimento del regime carcerario.
Maria Luisa Boccia