Le Urla dal Silenzio

La speranza non può essere uccisa per sempre.

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Da dentro a dentro.. dal carcere di Busto Arsizio a Carmelo

Questa piccola lettera (nell’ambito della rubrica “Da dentro a dentro”) a Carmelo Musumeci.. di un ragazzo di 24 anni, detenuto a Busto Arsizio.. è bellissima.. per l’umanità che vi si legge dentro, e per ciò che l’ha fatta nascere.

Se questo Blog ha un senso.. è quello di credere che si possa ancora toccare il sole. Dare un piccolo nutrimento alla speranza, mostrare che si può ancora scegliere, si può ancora credere, si può ancora vivere. Spronare a tirare fuori un potenziale che non è mai morto.

Nessuno è perduto, qualunque siano le catacombe.

Dovunque voi siate, chiunque legga questo messaggio nella bottiglia.. chiunque tu sia.. detenuto o “non detenuto”… ricorda chi sei, alza la testa, tira fuori l’anima e il sangue, mostraci il tuo volto.. semplicemente.. credi in te stesso..

Vi lascio alla lettera del nostro giovane amico.. dal carcere di Busto Arsizio.

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Domenica 12 giugno 2011

Signor Carmelo Musumeci,

io sono un ragazzo di 24 anni. Le invio questo mio scritto affinchè le possano giungere l’ammirazione e il rispetto che provo verso la sua persona.

Io sono detenuto presso la casa circondariale di Busto Arsizio, e pur non esseno ancora definitivo prevedo una condanna non inferiore ai 10 anni.

Sono venuto a sua conoscenza dopo avere letto un articolo su “Famiglia cristiana” che dava notizia del conseguimento della sua laurea.

Ammiro moltissimo l’integrità che dimostra nella sua intervista.

Avendo una condanna come la sua, molti avrebbero ceduto facendosi schiacciare dal sistema, o, ancora peggio, sostenendolo.

La sua laurea in legge è  un esempio di come lei sia riuscito a rialzarsi, senza scendere a compromessi subdoli.

Seguendo il suo esempio, intendo riprendere gli studi e impegnarmi al fine di conseguire un titolo in ingegneria informatica.

Questa mia lettera non ha nessun fine se non quello di farle sapere che grazie a persone come lei, la speranza che i propri desideri si avverino non viene meno.

La galera.. di Giosafatte Montrone

Avevo già pubblicato a suo tempo una poesia di Giosafatte Montrone (vai al link… https://urladalsilenzio.wordpress.com/2011/03/21/poesia-di-giosafatte-montrone/). Giosafatte ora è libero, ma ne ha subito di tutti i colori. Ha conosciuto il volto oscuro degli uomini, specie tra coloro che dovrebbero garantire il diritto e la legalità.

Giosafatte è una persona particolare, che dopo infinite sofferenze è riuscito a rimettersi in piedi.

Oggi pubblico un’altra sua bella poesia..

LA GALERA:
Scusa amico ascolta sta storia
fatta di lacrime e ben poca gloria
non e una favola ne una novella
ma e la vita di chi soffre in una cella
solo dolori e umiliazioni
ti manca tutto ne hai pieni i “cartoni”
gesti scontati mattina e sera
lacrime e noia è LA GALERA
triste tu guardi fuor dalla cella
vedi la vita ….dio come e bella
e con la mente voli lontano
sei con la tua donna la tieni per mano
ma poi ti accorgi con ansia e sgomento
che era solo un sogno e durato un momento
la tua realtà e molto piu dura
sei sempre chiuso ti fa quasi paura
dovunque guardi porte sbarrate
e altre persone come te disperate
ti senti schiacciato da questo muro
ti fa star male piu del futuro
ti auguro solo di star tanto male a te che mi hai rinchiuso in questo posto infernale…..
COMUNQUE
ora passa la conta……..
e un altro giorno…..
E QUESTO CHE CONTA!!!!!

Giosafatte Montrone

La vita… di Mario Arena

Un altro nuovo amico si manifesta a noi.. Mario Arena da Biella. Probabilmente, ne sono quasi sicuro anzi.. è giunto a noi tramite la nostra cara Monica Finardi. Mario Arena mi ha spedito un plico con alcuni suoi dipinti, che presto pubblicherò sul Blog, una lettera, e questo testo, che mi affretto a pubblicare.. dal titolo.. LA VITA..

In questi mesi di vita del Blog (più di un anno ormai) continuo ancora a stupirmi, per questi fiori improvvisi che emergono. Queste bottiglie lanciate nel cielo e nella notte.. questi frammenti di anima rimasti inchiodati tra queste lettere che tengo in mano. Queste parole che avanzano con un’antica delicatezza. Questi passi così delicati, che sembrano lavorati a mano. E questa infinita malinconia che non può non toccarti. Non può non toccarti dentro.

Il testo di Mario Arena è scritto molto bene.. ma non è solo questo.. non è solo questo.. è il dolore che non esce urlato, ma si fa ancora più sentire, come una massa energetica compatta e trattenuta che nell’incedere lento diventa ancora più elettrica. E’ la mano tesa oltre l’acqua fredda.. fa male tenderla.. senti le dita intirizzite.. mille stagioni che ti assalgono.. notti insonni ma la tendi….

A un certo momento, imbrevi parole irrompe anche la vergogna di una sanità in carcere degna dei mattatoi..di un danno alla salute arrecato a Mario Arena per una erronea terapia a base di statine somministratagli nel carcere di Parma (ricordiamolo.. considerato tra i carceri peggiori di Italia e sul modo in cui è amministrato giungono solo aspre valutazioni).

E comprendi, comprendi per l’ennesima volta.. che ogni uomo è un mondo.. ognuno di questi volti che irrompono pretende  il valore che già in esso vive… e il sogno di un giorno dove potremo riconoscerci senza maschere.

Vi lascio al testo di Mario Arena.. da Biella..

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LA VITA

Mi pongo a confronto con un tema che nel mio tormentato presente ha assunto una centralità che forse non avrei mai potuto immaginare solo qualche anno addietro: “Il tema della vita”! E’ singolare riflettere come questo sia accaduto in virtù dell’intrecciarsi di processi negativi, ecc. Tanto da plasmare la mia visualità mentale oggi lontana deal tempo e dall spazio della mia adolescenza, dal binario della rettitudine che mi ha portato alla presente perdita della vita. Anche se tutte le cose sono inevitabilmente destinate a perire in questo mondo dove tutto nasce, cresce e finisce e per arrivare a tanto non occorre un grande vecchio o un grande giovane.

I confini degli elementi, che questa fauna da qualche tempo riempie la mia mente, nel mio presente, volendo comparare con tante testimonianze di persone che escono da un coma profondo, mi scorre nella mente la mia vita vissuta a sorgere del nuovo astro. Muore la sera all’infinito come un marchingegno inventato da qualche fantomatico scienziato folle, frutto dei suoi funanbolismi, con pretese di protagonismo becero.  Ciò che ci dà la forza di persistere a vivere e morire è un filo sottile di speranza illusoria che ci viene offerta con i giorni della “libertà anticipata”, con promesse di riuscire a vivere, almeno a ciò che avanza dell’intera esistenza, tanto che il detenuto si auto-convince fino a tal punto che riesce a spingersi sempre più avanti fino all’auto menzogna. Anche io sono un “senza vita”, senza speranza, senza futuro, ma soprattutto consapevole di non potere uscire da questo coma irreversibile. Si è vero.. si muore di malattia, vecchiaia, incidenti e omicidi.. ma la maggiore morte è l’ergastolo.

Ho trascorso tutta la mia vita fra queste mura e sono stanco di morire ogni giorno, vorrei morire e basta! In fondo siamo figli di questo secolo, di questa Italia democratica (?) che protesta per l’abolizione della di morte nel mondo; faccio mio il testo tratto da un libro “i medici Piemontesi”: <<come può, quindi, avvenire che il cammino dell’arte sia retto se l’artefice sarà succube di qualcuno di questi difetti: l’arte, infatti, si rispecchia nell’artista, l’artefice vive e con esso vive la sua opera, onesto ed esperto l’artefice, ne derivano opere giuste e perfette, il contrario deriva dal contrario>>:

L’ergastolo toglie tutto, persino la vita, perché si muore ogni giorno, per cui è una tortura crudele. Mi piacerebbe vivere in un paese cosmopolita, modello per tutta l’Europa, ma la amara realtà è la presente, per cui sono favorevole alla pena di morte (!), che certamente è meno peggiore del suddetto “Ergastolo”.

Qualche anno addietro, nell’occasione di alcune richieste di eutanasia, si erano riuniti al Parlamento per una interpellanza parlamentare. Mi ero quasi  illuso di poter richiedere l’eutanasia, per i gravi problemi di salute in cui verso, a causa di una terapia di “statine” che mi era stata somministrata  al carcere di Parma, di cui, proprio nel corrente mese, mi è giunta notizia  che un giudice “corretto”, dott.sssa Maria Cristina Sarlì di Bologna, ha ritenuto doveroso riaprire il caso ed avviare una procedura di indagine nei confronti delle responsabilità dei medici del carcere di Parma e della casa produttrice dei farmaci.

Ma per tornare al dettaglio – la vita – ergastolo malattia irreversibile che produce solo mostri e mostruosità come è noto.. ormai da diversi studi condotti dal Dott. Di Stefano e Ferragutti, del Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica dell’Università La Sapienza di Roma.

Ciò che è certamente palese, ormai, è il poco interesse degli operatori dell’Area trattamentale che lavorano nell’ambito penitenziario nei confronti dei detenuti dell’A.S.1.; e capisco anche il motivo in un Paese ormai allo sbando, ove un Ministro della Giustizia, tutti i giorni, parla in Tv di inasprire l’ergastolo , di mattina; poi la sera è occupato a difendere il Presidente del Consiglio. Cio è pacifico, se ne evince la contraddittorietà.

Non sono orgoglioso del mio passato, anzi me ne vergogno tanto, tanto che non ho più la forza di essere osservato e giudicato all’infinito dalla gente.

Dovrei sottopormi ad una visita specialistica per l’eventuale operazione, ma mi sono rifiutato, motivando la mia decisione espressa e spiegata in precedenza.

C’è poco interesse che, a mio giudizio, si pone per il reinserimento dei detenuti dell’Alta Sicurezza 1. Questa direzione nasce dalla ormai consolidata opinione personale e regionale, anche se, certamente, si evince la contraddittorietà con la nostra “reduce” Costituzione, per cui si è scelto di percorrere una linea assai tragicomica e imbarazzante: “sperare nella vecchiaia o nella malattia di un detenuto per una liberazione naturale che si manifesta solo attraverso il decesso”, magari chi ha causato la morte non si addossa la responsabilità per il male adombrato.

Mario Arena

Lettera aperta al Ministro Alfano… di Sebastiano Milazzo

Pubblico questa lettera aperta di Sebastiano Milazzo (detenuto a Spoleto e più volte intervenuto con suoi scritti in questo blog) rivolta al Misericordioso Ministro Angelino Alfano dopo i suoi ultimi ragli e latrati…

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Lettera Aperta al Ministro Alfano

Lei riesce a sorprendere sempre gli italiani, qualche settimana con il tenero appello perché fossero concessi gli arresti domiciliari al padrone d’una cagnolina che soffriva d’ansia per l’assenza del suo padrone e adesso facendo la faccia feroce davanti agli italiani per informarli che alcune categorie di detenuti devino morire in carcere e poveri. Chiaramente si riferiva agli ergastolani.

Con le sue scellerate parole ha ignorato il principio che anche il peggiore criminale ha diritto di riscattarsi dal proprio passato, e assicurare questo diritto previsto per tutti significa difendere la democrazia, che non divide il diritto per categorie, sempre che lei sappia cosa significhino i termini.

Diritti e Democrazia, in questo paese, dove già i criminali dell’economia e della politica, al massimo stanno qualche mese agli arresti domiciliari, le sue parole rivolte solo contro di noi hanno  il sapore della vendetta contro quelle categorie, non della giustizia, si vede che nessuno le mai insegnato che la vendetta è la ripetizione della colpa, che essa stessa è una colpa.

Il tono della sua voce era di quello di chi stava attuando una vendetta ,ma sappia però che quando le carceri alcune categorie non lo vedeno nemmeno se lo vogliono e per alcune categorie sono destinate a diventare dei cimiteri, non ci sarà mai giustizia e nemmeno democrazia.

Vede,Ministro ci potrebbero essere ergastolani che dopo 100 anni di detenzione non sarebbero pronti per essere reinseriti nella società, ma ci sono persone per le quali dieci anni potrebbero essere troppi  e meriterebbero di aver donata ancora un po’ di vita, i Costituenti questo lo avevano capito e scritto nell’articolo 27 della Costituzione.-Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Lei con una sola idiozia è riuscito a cancellare l’articolo 27 della Costituzione, anche perché era sicuro che un’opposizione amante del Diritto quanto lei, sempre pronta a contestargli anche il minimo starnuto, non l’avrebbe contestata per la sua grave istigazione al suicidio, infatti non una voce s’è levata all’opposizione a contestare quella che è stata una rozza e incivile istigazione al suicidio, nei confronti degli ergastolani, che non l’hanno vista fare la faccia feroce quando, in prossimità di elezioni, la sua parte politica chiedeva i voti, allora non affermava che la giustizia giusta prevedesse di farli morire in carcere.

E nemmeno l’hanno vista mai fare la faccia feroce contro le cricche di affaristi e amministratori, loro si veramente organizzati nel fare razzia delle risorse pubbliche, che hanno ridotto il sud, la terra da cui lei proviene, nella condizione di degrado in cui si trova.

Ma il livore che traspariva dal suo volto, mentre pronunziava quelle parole, era quello di chi ha paura e non di chi ha coraggio di affrontare il proprio compito nel rispetto della legge e della Costituzione.

Dalla sua voce piena di odio traspariva la paura di chi ha paura del Brusca di turno e dei soi compari pentiti, cui è stata consegnata, anche con il suo notevole contributo, la giustizia di questo paese.

Naturalmente per lei deve morire in carcere anche chi, in ipotesi, è stato condannato ingiustamente sulla parola di questi sozzi individui, perché potessero ottenere la libertà mentre ancora le loro mani grondavano di sangue, che lei e non solo lei, ritiene inaffidabili solo quando accusano qualcuno del suo livello.

Nel suo livore c’era la stessa disumanità sbrigativa che c’è nel reato, quella disumanità che istiga noi ergastolani al suicidio, imponendo la violenza di togliere un uomo alla propria famiglia e tenerlo in galera anche quando questo non nuocerebbe più alla società, solo per fare una starnazzata mediatica, in un momento di grande difficoltà.

Sebastiano Milazzo, casa di reclusione di Spoleto.  

Le opere di Paolo Scarfone sul blog- quinta creazione

Amici, ecco la nuova opera creata dall’artista Paolo Scarfone per il blog..

E, non è un’opera normale. Nessuna delle sue lo è. Ma questa lo è anche meno delle altre. E’ fondamentale che leggiate la sua premessa, che riporto più sotto. Basta una frase per capire..

“come in tutte le opere che ho pubblicato, il corpo che da forma al pezzo, sono io…”

Paolo non crea semplicemente queste opere mantendosi, almeno in parte, al di là. Paolo in un certo senso “si immola” all’opera. Ci si butta dentro, con tutto ciò che ha. Viscere ed emozioni.. ma anche, ossa, corpo, muscoli, viso. Guardante bene quest’opera. C’era lui dentro e dietro il materiale ardente attaccato alla parete. La sostanza bruciava sulla sua pelle e sul suo volto che con gli occhi chiusi aderiva. Fino a che preso da un senso di soffocamento è dovuto uscire fuori. Il calore sulla pelle aveva raggiunto i quaranta gradi, in più il senso di essere bloccato, inchiodato, soffocato. A un certo punto, ha dovuto alzarsi e andare a respirare fuori.. a prendere aria.. vento fresco.. L’opera in quel momento si è un pò sfaldata. MA, ECCO IL COLPO A EFFETTO DI PAOLO, come capire leggendo la sua premessa. E’ ANCHE E SOPRATTUTTO CIO’ CHE E’ ACCADUTO DURANTE E DOPO LA CREAZIONE DELL’OPERA COL SUO CORPO CHE “FA” L’OPERA. E LA RENDE EMBLEMATICA, POTENTE E RIVELATRICE.

Paolo dice

“non potete capire… tutto li prese senso… io che potevo, ho avuto la facoltà di “USCIRE” nel picco della mia frustrazione dalla gabbia che mi ero creato, io che posso, ora non ho niente più di una foto a ricordarmi quelle sensazioni… solo una foto… non urla nelle orecchie, non colpi subiti, non umiliazioni ricevute, non costrizioni imposte… io potevo liberami del mio senso di occlusione vendendo la dignità di quel pezzo in un compromesso a favore del mio benessere… a me per uscire, è bastato spingere…”

IO POTEVO LIBERARMI?.. GIUNTO ALL’INTOLLERABILITA’ MI SONO LIBERATO… NEL MOMENTO IN CUI LA AGOGNAVO E NE AVEVO BISOGNO LA LIBERTA’ E’ GIUNTA, COLPENDOMI CON LA FRESCA ARIA ALL’APERTO.

E si trattava di un giorno e di un’opera.. non di una vita intera rinchiusa, soffocata e bloccata..

CHE ALTRO AGGIUNGERE? COSA ALTRO C’E’ BISOGNO DI DIRE?

TUTTO STA IN CIO’.. L’opera è immensa, proprio perché vissuta con pelle, corpo e soffocamento.. proprio perché è testimone di una costrizione e di un liberarsi.. e allo stesso tempo paradosso e metafora violenta di chi pur costretto e bruciante di voglia di aria e vento, si libertà e orizzonte, di fuga.. è costretto e incatenato da sempre.

Grazie Paolo.. sei un vero artista… uno che ci mette l’anima.. uno che vive con passione..

Di seguito leggerete la premessa di Paolo e poi tre foto dell’opera..

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Questa opera cari visitatori del blog… è “diversa da tutte le altre… quest’opera è dedicata a tutti coloro che dal carcere ci sono usciti e al contempo a quelli che non usciranno mai…. Questa opera, non esiste… è l’espressione di una debolezza, di un sentimento di fuga, di un’insofferenza, di una voglia di luce… come in tutte le opere che ho pubblicato, il corpo che da forma al pezzo, sono io… in tutte quelle fatte prima di questa, il pezzo si solidificava lasciando dentro se, il vuoto… in questa non è così… in questa non ho resistito con i muscoli contratti al con tutto il corpo al chiuso senza aria con il telaio inchiodato al muro, in trappola per tutte le ore che di cui necessita un’adeguata essiccazione… io non ce l’ho fatta, e a costo di perdere il pezzo ho potuto uscire, respirare, lavarmi in una doccia da solo. C’era il sole quel giorno… il materiale sulla mia pelle dopo un’ora superava i quaranta gradi… Una volta uscito fuori il pezzo si sformò divenendo molle, non essendo nient’altro che materia informe, prima di aver il tempo di imprecare contro la mia claustrofobia fui colto nel sole di maggio da una leggerissima brezza al profumo d’una promessa d’estate… non potete capire… tutto li prese senso… io che potevo, ho avuto la facoltà di “USCIRE” nel picco della mia frustrazione dalla gabbia che mi ero creato, io che posso, ora non ho niente più di una foto a ricordarmi quelle sensazioni… solo una foto… non urla nelle orecchie, non colpi subiti, non umiliazioni ricevute, non costrizioni imposte… io potevo liberami del mio senso di occlusione vendendo la dignità di quel pezzo in un compromesso a favore del mio benessere… a me per uscire, è bastato spingere… quanto cazzo può contare tutto il resto? Che cazzo aggiungere? Nulla.. sacro rispetto per chi anche avendo sbagliato irrimediabilmente, sta gia pagando anche senza il vostro disprezzo… risparmiatevelo… questa è la prima opera che vedete in questo bolg che non è “foto dell’opera” ma testimonianza di una performance…

Paolo

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Opere meravigliose di Salvatore Guzzetta

A volte la barca si ferma in mezzo al mare nero petrolio e qualcosa si accende sulle barche dei pescatori, come un fuoco che si vede dalla riva..

O come fari che per istanti ti fanno andare oltre il ritmico andare delle maree..

Quando opere come queste vengono alla luce, qualcosa si frantuma nello Specchio opaco che riflette l’assenza, qualcosa di fa Presenza. E questo luogo diventa anche luogo di Spinta e Desiderio, di corsa oltre le sbarre, anche per il solo palpito di un gesto, per il colpo di colore di una mano, per il tronco scheggiato di una quercia.

Queste opere di Salvatore Guzzette sono semplicemente meravigliose…

A cominciare dalla mia preferita, questo meraviglioso nudo di donna che apre la danza. Vedete io pittori ne ho conosciuti tanti e di quadri ne ho visti  a bizzeffe, ma raramente una tale capacità vibrante e vitale, che in colori ardenti e nitidi e in linee carnali, sensuali e avvolgenti oltrepassa il recinto per toccarmi dentro. C’è una sensualità da essere percepibile elettromagneticamente se qualcuno si prendesse la briga di misurarla con qualche strambo apparecchio futuristico..

E poi quella donna con la chitarra, che mi fa chiedere.. ma piantonato nel suo fine pena mai nel carcere di Opera, Salvatore Guzzetta come ha fatto questi viaggi?.. come è giunto in Spagna, dove in una città dell’entroterra selvaggio, può ancora vedere una donna come quella, con quelle braccia grandi e il volto ampio, accogliente e mediterraneo.. e la veste trazionale sulla quale si cinge della frutta.. mele, pomodori, non so dire.. ma che importa che frutta sia?

E i viaggi sono nel tempo.. c’è quella donna in presa quasi da un romanzo di Dickens o in qualcuna di quelle interminabili opere inglesi, stile dell’ottocento, mentre legge.

E poi un’altra delle mie preferite, quei due.. penso padre e figlio che suonano il violino.. e mi rammento di Kafka, di Praga.. dei suonatori zingari e dei quartieri ebraici dell’est.. e la musica zigana, l’ironia yddish.. mentre il fiume scorre, tu scorri col fiume.

E poi Picasso, surrealisti, visionari in una immagine che smembra il senso per ricomporlo in qualcosa..

Per finire con l’uccello che ti porta la sua spiga di grano, che ti porta la vita, presa dalla terra, dalle mani dei contadini.. e che vola dove il ferro e le grate, le porte blindate, i corridoi di cemento e i secondni.. sono solo un ricordo…

Buona visione…

 

Le opere di Paolo Scarfone per il blog

Oggi inserisco la seconda opera che l’artista Paolo Scarfone ha realizzato per Le Urla dal Silenzio. Come ho scritto nel post con la prima sua opera, Paolo ha iniziato una serie di creazioni ispirate al blog e a ciò che esso contiene. Quindi si tratta di lavori non fatti con oggettivo distacco, ma con un pieno coinvolgimento emotivo. Sotto vedrete la nuova opera fotografata da tre angolazioni differenti. Ma prima inserisco due righe con le quali Paolo stesso presenta la sua opera. Lascio il suo testo immutato come l’ho ricevuto, senza apportare alcuni modifica..

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“Sono qui…si muovono, gridano, piangono..ma noi no..non possiamo proprio vederli…troppo forte è la membrana che separa noi da loro… troppo compromettente sarebbe riconoscere di sapere che cosa succede a loro..loro che esistono…  preferiamo guardarci in faccia tra di noi … noi puri.. noi dietro le nostre faccie di oro zecchino.. noi giudici perfetti e severi…  noi maschere che rappresentiamo l’elit degli impauriti dall’estraneo… noi coglioni che non abbiamo capito chi è il vero nemico, nel mentre che il nostro vero nemico fa banchetto del nostro culo… noi stiamo bene soli.. “insiemamente” soli e ignoranti… beh! Vaffanculo! Per quello che posso io dico NO! Io dico che non faccio parte neanche per nulla nel vostro “noi” a cui tanto tenete.. col massimo delle mie forze concedo una finestra a tutti quelli che la gente non conosce..i miei  “loro”(protagonisti dei pezzi) sanno quanto è doloroso e difficile cercare di “ESISTERE” nella nostra realtà, ma sanno anche quanto si può essere morti vivendo se non si esiste agli occhi del mondo.. è per questoche i personaggi delle mie opere, pagano il prezzo della RINUNCIA: rinuncia di un’identità definita, della  dignità che non permetterebbe loro di supplicare un l’attenzione di un solo sguardo, ma anche rinuncia a soffrire, un’imporsi di rinunciare a subire, un tentativo di categorica rinuncia allo stupro psicologico, un’imposizione di rinuncia all”ANAFFETTIVITà A VITA”… i “fantasmi”( sempre più vivi di noi) delle mie opere pagano il prezzo della rinuncia per ESISTERE! Esistere ai nostri occhi.. si noti che n questa opera, la gestualità di chi sta aldilà della tela, non è una violenta operosità invasiva che punta a giungere con una qualche voce in capitolo nel nostro reale… è questa la cosa più deprimente.. il soggetto, chiede quasi il permesso per mostrarci un palmo e mezzo volto, per sbirciare nostalgicamente in quella che un tempo era la sua realtà.. lui osserva.. osserva le nostre mamme, le nostre fidanzate, i nostri figli, le nostre famiglie, i nostri amici e nemici, i nostri lussi e i colpevoli che vengono lasvciati fuori. Osserva i nostri beni  e le nostre problematiche, osserva e piange pensando alle sue di un tempo, e pieno di timori, l’estrema speranza che si fa per lui realtà si concretizza in un bieco (ma iportantissmo visto l’andazzo) esistere anonimamente… siamo a metà fra la denuncia e l’imposizione di un cambiamento…”

 

Cogli il Volto

self-clearing

Un piccolo testo. Su questo blog certo non manca la varietà. Abbiamo inserito testi chilometrici (come “Ergastolani e sessualità” che assolutamente consiglio a tutti di leggere) e brevissimi scritti, come la favola precedentemente postata e questo breve testo di Nicola Ranieri (c’è altro di suo in questo blog, pubblicato in precedenza), detenuto con ergastolo ostativo nel carcere di Spoleto. Ma è meglio così a mio parere. Ho sempre ritenuto che sia importante variare i linguaggi di volta in volta, per non dare alla mente autostrade neuronali abusate e consuete, ma di volta in volta spingere (che poi è sempre anche un spinger-ci) ad altri viaggi.

Di questo testo mi ha subito catturato l’incipit: “…Non si può rimanere imprigionati nell’abisso delle profondità oscure, se il lettore non conosce la vita di ogni singolo individuo, c’è molta disinformazione, nessuno può e potrà mai capire nel profondo cosa significa la prigionia se non la prova sulla propria pelle. ” L’Abisso non è solo l’Abisso di chi è rinchiuso. Ma è ovunque. E’ l’Abisso di chiudendo occhi, mente e cuore offusca la luce imperitura, il diamante abissale, la Canzone che rende testimonianza al tuo tempo. Abbandonare gli indifesi, tradire il moto che spinge a intrecciare le mani, volgere lo Sguardo dall’Altro è una rinuncia anche verso noi stessi, un arretrare, un restringimento, un rattrappirsi. E che questo sia qualcosa di diffuso non lo rende di verso da quello che è.
“Se il lettore non conosce la vita di ogni singolo individuo…” Ritorna la frase di questo piccolo testo. Piccola e disadorna, ma dice tanto. Intere costellazioni di letture, forse di più. Convegni su convegni fumori, disquisizioni dottorali, predicozzi d’alto bordo.. non ne rendono un’unghia. Noi parlìiamo senza conoscere. Ponfichiamo senza sapere. Urliamo feroci all’indirizzo di chi non abbiamo mai neanche visto. Come quelli che potrebbero parlarti ore per gli ebrei, e forse non ne hanno incontrato mai neanche uno. Ma di cosa stiamo parlando? Abbiamo un gregge fumoso nella nostra mente, un calderone nel quale, come nella notte di Shelling, “tutte le vacche sono nere”. E oltre quello non andiamo. Oltre quello non vediamo.  Intendiamoci, la macrocategorie servono.  Non si può procedere solo caso per caso. Sono necessari elementi di sintesi per trarre valutazioni generali, interpretare tendenze, parlare in prospettiva. Ma questo non basta. Non basterà mai. Da solo è una prigione, un carcere della mente, luoghi astratti chiamati penitenziari, reati, detenuti. Niente di vivo. Dite puntate su un gregge, perché è gregge l’assembramento in cui una pecora vale l’altro.. perché non si tratta per te, in fin dei conti, di altro che pecore. Un esercito di cloni, modellini del das fatti con lo stampino. Qualcuno li ha definiti criminali. E questo ti basta. Le loro infinite storie sono lettera morta per te. La pietra non ti mancherà mai.. al primo segnale di fumo, al primo movimento di gambe o di vita che venga “dalla parte sbagliata”.
“Se il lettore non conosce la vita di ogni singolo detenuto…” E non è che devi prendere tutto alla lettera. E non è che devi andare alla ricerca di ogni singolo detenuto. Non fermarti alle parole! Cogli il messaggio! Il messaggio viene come un treno nella notte. Per chi sa coglierlo, viene al momento giusto. Viene stanotte. Viene ora. Viene per te. Coglilo, senza portarlo alla deriva della mente, senza impantanarlo nelle sue manfrine logiche. Cogli il Simbolo.

Appendere cappi è la cosa più facile. La ferocia è la malattia opposta e complementare dell’indifferenza. Due corna dello stesso toro drogato. Entrambe non guardano il Volto, quel singolo Volto. Chi sta parlando adesso? Chi scrive? Chi è dietro le sbarre? Quale è la sua storia? Quale è la sua rabbia? Quale è il suo cuore? C’è uno scambio che nasce quando le maschere cadono, e il Silenzio precede la parola. Stanze nascoste ai confini del cuore. Uscite di sicurezza, segni sul muro. Il resto è ruomore del traffico, e i cani che latrano…

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Non si può rimanere imprigionati nell’abisso delle profondità oscure, se il lettore non conosce la vita di ogni singolo individuo, c’è molta disinformazione, nessuno può e potrà mai capire nel profondo cosa significa la prigionia se non la prova sulla propria pelle. In questo periodo sono in molti che escono dal carcere accusati di reati che trovo indegni anche di essere scritti, ma nessuno informa che chi commette reati contro persone indifese non sono graditi nelle sezioni. Altri che escono perché a loro favore hanno famiglie ricche ed il Dio denaro fa scivolare la chiave in ogni porta, chi rimane in carcere è sempre il disperato, il povero, l’abbandonato, così non potendo offrire niente, rimane in carcere tutta la vita, così nessuno ne parla neanche se un giorno decide di togliersi la vita. Nel carcere di Spoleto non esiste solamente la certezza della pena ma anche la brutalità della pena, l’incomprensione e per ultimo l’abbandono.
Tutti definiscono questo istituto il migliore d’Italia ed io che ci sto vivendo questo non l’ho ancora capito, eppure sono qui dal 7 agosto 2001.
Posso dirvi che da quando sono qua ho visto solamente un ergastolano uscire, era di pomeriggio quando è uscito, si è suicidato, nessun giornale o TV ne ha parlato, se n’è andato dentro una busta di cellofan…se è questa la giustizia che il popolo definito più democratico d’Europa vuole per sconfiggere il crimine, allora spero che facciate di tutto per votare a gran voce la pena di morte. Piano piano capirete se leggete i miei scritti il perché mi trovo in carcere, forse mi darete ragione, anche se ora della ragione non so che farmene se non si cambia tutto il sistema giudiziario.
Il cuore è il muscolo che dà vita ma la vita è un dono meraviglioso che ogni donna offre, cerchiamo di comprendere e costruire il recupero perché se non lo sai, io sono un essere come te ma cerca in te di avere cuore e umanità perché la vita è libertà, non certo castigo e incompetenza ma recupero e reinserimento nella società.
Desidero donare tanto amore ma posso solamente espandere un pensiero che neanche centomila sbarre, diecimila chiavi possono fermare, perché il pensiero arriva, ti coinvolge nella cruda realtà. Scegli il cuore!!

Nicola Ranieri
Carcere di Spoleto – ottobre 2008

intervento di Maria Luisa Boccia

Maria Luisa Boccia è una donna da sempre impegnata per le cause sociali e per le battaglie sui diritti. Docente e scrittrice, con una propensione particolare al tema del femminile nella politica e nella società, è stata anche, fino alla scorsa legislatura, senatrice della Repubblica. Ha preso a cuore la condizione dei detenuti, e si è impegnata per restituire a loro dignità e condizioni di vita decenti. In contatto, tra l’altro, con il nostro Carmelo Musumeci, che mi fatto avere un suo testo dedicato alle battaglie degli ergastolani.
Ed è illuminante quando lei pone la questione del valore “intrinseco” di ogni singolo essere umano, e della necessità, quindi, della “concretezza”. Perché uscire dall’eterno conteggiare costi, benefici, vivi e morti è il primo passo per la possibilità di essere realmente umani. Non esiste il “problema” degli ergastolani. Esistono gli ergastolani. E ognuno di essi è un Volto. Finché cerchi di risolvere il “problema”, vedi ancora le tue teorie e i grandi numeri. E puoi considerare sacrificabile una causa che non presenti milioni di vittime. Ma è quando “riconosci” il singolo uomo, il singolo ergastolano, che comprendi come le statistiche non bastino più, e che non si dovrebbe voltare la testa, neanche se ne fosse rimasto solo uno. Come scrive nel testo più sotto Maria Luisa Boccia:

“Dovremmo guardare alle singole vite deprivate per sempre di dignità umana. Se anche fossero poche, pochissime, sarebbe comunque un costo troppo alto.”

Ho dovuto procedere a qualche taglio. Essendo un testo inusuale per il blog, la lunghezza originaria rischiava di allontanare alcuni lettori da questa “incursione” da un punto di vista sociale e politico. La “riduzione” non rappresenta quindi una mancanza di interesse per le parti tolte, ma la volontà di rendere il testo leggibile da un numero maggiore di persone, tenendo anche conto che è un genere di scritto che si differenzia dai contributi pubblicati finora.

Sono pagine che meritano. Specie tenuto conto della cappa di conformismo, viltà e acquiescienza che avvelenano la politica italiana. E hanno, tra gli altri meriti, quello di far vedere come ci sono persone che non accettano sirene-norcolettico e pensieri dominanti.

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In questi anni sono stati gli ergastolani a  porre con forza ed intelligenza la questione dell’ abolizione dell’ergastolo. In particolare voglio ricordare la campagna “Mai dire mai” dell’autunno del 2007. Consisteva in una lettera al Presidente della Repubblica, di poche righe. “Io – seguiva il nome- chiedo che la mia condanna sia tramutata in pena di morte, perché sono stanco di morire un poco ogni giorno.”. Le lettere inviate  furono moltissime,  da quasi   tutti gli ergastolani detenuti in carcere. Ne inviavano una copia  anche a me, al Senato. E fu a seguito di una mia lettera che il presidente Napoletano rispose, rinviando al Parlamento di intervenire nel merito. Il quotidiano “La Repubblica”  dedicò una pagina alla  notizia, e la riprese successivamente con interviste e dati. Suscitando così reazioni ed interventi di altri giornali. Ne parlarono anche alcune tv e radio straniere. Allora mi colpirono  le reazioni, pressoché univoche,  di giuristi e politici sulla stampa.  Con quegli argomenti, contrari all’abolizione dell’ergastolo, dobbiamo confrontarci ancora oggi.

Il primo argomento è che l’ergastolo è  una condanna simbolica. Di fatto, si dice, non lo sconta più nessuno, grazie alle misure premiali di vario tipo. E’ del tutto falso. Nel 2007  gli ergastolani detenuti, erano 1.294, cifra fornita dal Ministero della Giustizia. Ed aumentano le condanne all’ergastolo, nonostante si registri una riduzione  dei reati per i quali è previsto. Ma l’allarme sociale è tenuto vivo, con l’argomento che non c’è più certezza della pena. Si può delinquere anche in modo grave, dal momento che se pure si è  processati e condannati, si resterà il carcere  poco tempo. La prima urgenza, dunque, è quella di  ristabilire la certezza della pena. Non solo. La  pena deve essere alta, per dissuadere dal crimine. Insomma le leggi devono prescrivere più carcere, anche più ergastolo, i giudici devono emettere sentenze più severe,   le condanne devono essere applicate senza sconti. Come ha osservato giustamente Patrizio Gonnella su Il manifesto, si vorrebbe trasformare tutti i detenuti in ergastolani.

E’ una deriva che  si è manifesta. Se  consideriamo la questione dell’ergastolo all’interno  dell’ articolato sistema con cui si produce il  “governo della paura”, attraverso lo scambio tra sicurezza  – promessa-  e libertà – limitata –, risulta evidente come per contrastarlo sia indispensabile modificare il senso comune.  Viceversa da anni l’unica iniziativa che vi è stata è quella di presentare ad ogni legislatura proposte di legge per l’abolizione dell’ergastolo. Una riforma, ovviamente, indispensabile. Ma che non può realizzarsi  solo con una maggioranza parlamentare.  Anche oggi l’ostacolo principale non consiste nei rapporti di forza in Parlamento, del tutto sfavorevoli. Detto altrimenti non ci sarà mai una maggioranza favorevole all’abolizione se non cambia l’orientamento culturale nella società. Se non si mette al centro dell’iniziativa politica sull’ergastolo una diversa rappresentazione del carcere, in generale  della pena.  Bisogna spostare  l’opinione pubblica, innanzitutto democratica e di sinistra, per poter cambiare le norme. Creando un circuito virtuoso tra cultura del diritto, cultura politica ed immaginario sociale. Da troppo tempo la sinistra ha  abbandonato questa dimensione della politica. Più carcere, e pene più dure non servono a prevenire e reprimere. Ma a fabbricare paura, per ottenere consenso. E dunque  la prima esigenza è quella di spezzare l’isolamento del carcere.

Per questo scopo il testo di Aldo Moro offre una serie di spunti, davvero straordinari. Perché parla il linguaggio della vita, della condizione umana, evidenziando i nessi con i principi di una civiltà del diritto. Quelli scritti nella nostra Costituzione.

“La pena – scrive Moro- è rivolta al passato. Non è richiesta da quello che potrebbe avvenire, ma da quello che è accaduto”. Quindi non ha alcuna funzione preventiva, o dissuasiva. E’ un’inversione a 360 gradi rispetto al clima in cui siamo immersi, per cui sembra che tutto si debba, e si possa, prevenire, grazie ad una più dettagliata definizione dei reati , e ad un pervasivo controllo sociale. Ed abbiamo dimenticato che lo Stato è autorizzato a punire  solo in via eccezionale.. Solo come reazione a qualcosa che è accaduto. Non per governare situazioni e rapporti sociali sempre più complessi. Neppure per prevenire  reati. Tantomeno per dissuadere  soggetti  “ a rischio” di commetterli.

La pena, continua Moro, è retribuzione mai vendetta. Sembra un’idea acquisita, condivisa dai più. Non è così. Basta pensare al coinvolgimento delle vittime e dei loro familiari nella discussione sulla giusta pena. Ad esempio per i provvedimenti di grazia. O sull’ amnistia per determinati reati. Ho molto apprezzato  il recente disegno di legge dell’on. Sabina Rossa  nel quale si propone di non condizionare più al parere dei familiari la concessione della grazia. Finché si continua a ritenere determinante, per considerare “equa” la pena inflitta la colpevole,  il perdono, o il sentimento di giustizia delle vittime e dei familiari, la pena resta impregnata del gusto, amaro, della vendetta. E si stabilisce un circuito perverso tra sfera politica e sfera privata, poiché un atto  istituzionale  per essere legittimo deve essere approvato da privati cittadini.

Perversa è la confusione tra privato e pubblico, non certo la dimensione personale della politica. Non andrebbe mai dimenticato che la pena, quale essa sia, affligge una persona in carne ed ossa. Questo è il punto centrale della riflessione di Moro sulla pena, sul suo significato, la sua modalità, in una società modellata dalla civiltà del diritto. Per Moro la pena è meritata in quanto chi la patisce è un soggetto “libero e responsabile”. La pena, si badi, non solo il reato è ancorata alla libertà. Moro si interroga sulla posizione all’interno del consesso civile in cui viene a trovarsi  chi ha compiuto un atto libero, ma vietato. E’ da questa prospettiva che definisce il significato e la misura della pena. La pena infatti è una limitazione della libertà. Come tale è sempre,  soprattutto, un intervento sulla persona. Questo aspetto non può essere né rimosso, né alterato da altre considerazioni. Come ad esempio la funzione sociale di dissuasione rispetto ai potenziali colpevoli; o quella di risarcimento rispetto alle potenziali vittime; o quella di rassicurazione rispetto ad un opinione pubblica, a torto o a ragione allarmata.

Come privazione della libertà la pena non può che essere limitata. In alcun modo dovrebbe essere lesiva della dignità della persona. La condizione di  soggetto  libero e responsabile può essere fortemente ridotta, ma non del tutto cancellata.  Per questo Moro insiste sulla “quantità e qualità della pena” , da stabilire per legge. Il margine di discrezionalità affidato al giudice non può essere troppo ampio,  in un ambito così essenziale per la civiltà dei rapporti tra cittadini/e ed istituzioni, qual è quello del potere di una privazione di libertà.

La pena deve essere proporzionata, per quantità e qualità, perché diversamente dal reato che può essere disumano nella sua  efferatezza, la pena non può essere né crudele né disumana. E’ quanto prescrive esplicitamente la Costituzione. Ma è l’argomentazione di Moro che  merita interesse, per la stringente coerenza. Il presupposto della libertà responsabile opera nel giudizio di colpevolezza, e dunque nella legittimità della pena  ed opera  come criterio di proporzionalità della pena, per  limitare la privazione della libertà, ovvero della  stessa umanità della persona.

Per Moro come per gli ergastolani, protagonisti della campagna “Mai dire mai” l’ergastolo è una pena più crudele della pena di morte, perché è una privazione illimitata di libertà. Per questo il “fine pena mai”  è una  condizione di vita disumana. E’ privazione di vita, perché vivere senza libertà e senza responsabilità, non è vita umana.

Restando all’ergastolo.Si può vivere per sempre reclusi, senza essere privati di umanità?  Come si vive senza nessuna possibilità di ritrovare i rapporti, gli affetti,la comunicazione e gli scambi con gli altri esseri umani, non reclusi, e con  il mondo? E’ vita, o non è un morire senza fine? Penso che le brevi e secche righe della lettera degli ergastolani al capo dello Stato vadano prese sul serio. Non sono un espediente, utile a dare enfasi al problema dell’ergastolo. Descrivono una condizione vissuta, giorno dopo giorno. Ci dicono cosa sia, nella quotidianità, la pena senza fine. Come sia privo di senso vivere, se non si può neppure immaginare un domani.

Nessuno dovrebbe essere privato in modo così radicale della libertà. Di questo dovremmo parlare,  per porre  in concreto, il problema dell’abolizione dell’ ergastolo, Dovremmo parlare all’amore per la libertà che è in ogni essere umano. Trovare il modo di tradurre le questioni  dal linguaggio del diritto a quello della vita. Perché di vite concrete,  di persone incarnate  si tratta. E’ quello che fa Moro per insegnare ai suoi studenti cos’è il diritto penale, e  perché l’ergastolo non è giustificabile, per i principi del diritto  come per quelli  della vita.

E invece… siamo alla “macabra contabilità” del bilancio costi e benefici. Quanto ci costano le carceri piene, e quanto spendiamo per ogni ergastolano. Quanti sono gli ergastolani e quanti di loro  scontano per intero la pena. Se la media degli anni vissuti in galera è di 40-50 anni, o invece di 30. In questo caso, perché abolirlo, visto che si è già realizzata la massima riduzione  prevista nei disegni di legge? In fondo, anche accettando la cifra ufficiale, 1.294  non è un gran numero, in un mondo  dove le cifre che colpiscono l’immaginazione  si aggirano sulle centinaia di migliaia, se non sui milioni.

Come Moro dovremmo guardare alle singole vite deprivate per sempre di dignità umana. Se anche fossero poche, pochissime, sarebbe comunque un costo troppo alto. E’ un principio fondamentale della democrazia liberale che una norma deve essere abrogata se anche uno solo  ne patisce iniquamente. E che la qualità di un ordinamento giuridico si misura sulla condizione delle minoranze, non della maggioranza.

Se anche una sola vita patisce una pena disumana,  in contrasto ad ogni principio di giustizia, deve interessarci. Perché è colpito un bene indivisibile qual è la libertà personale.  Sono convinta che se sapremo parlare il linguaggio dell’amore per la vita e per la libertà potremo spezzare la spirale paura-sicurezza che porta ad un  ricorso crescente al penale, all’innalzamento delle pene ed inasprimento del regime carcerario.     

 Maria Luisa Boccia

  

 

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