Le Urla dal Silenzio

La speranza non può essere uccisa per sempre.

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Ergastolo ostativo… di Salvatore Pulvirenti

Il nostro Salvatore Pulvirenti, detenuto nel carcere di Oristano, ci invia alcune sue riflessioni su un tema cardinale, fin dall’inizio, per questo blog.. l’ergastolo ostativo.

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Prima di iniziare a scrivere questo mio scritto, voglio descrivere a persone che vivono fuori da questo contesto, che cosa sia l’ergastolo ostativo.

L’ergastolo ostativo è quella pena che non ha un fine, cioè, non potrai uscire dal carcere e non puoi accedere ai benefici. Dovrai passare tutta la tua esistenza in un istituto di pena, invecchierai e morirai, non conoscerai niente di tutto quello che concorre fuori. Vivi una vita che secondo un mio giudizio non ha senso di viverla, perché tutto quello che farà l’ergastolano ostativo in un istituto di pena, giova solo a se stesso, ad altri non gliene può fregar di meno, perché non ti conoscono. Figli, nipoti e parenti più stretti non sanno chi sei, e se lo sanno, per loro sei diventato come un estraneo.

Trascorsi parecchi anni, dentro un istituto di pena, non puoi relazionarti con la realtà di fuori, e nello stesso tempo sei escluso totalmente dalla società, se sei fortunato e uscirai dal carcere che è molto difficile, impiegherai moltissimi anni ad inseriti nella nuova società. Ultimamente si è parlato tanto di questa ignobile pena che è stata equiparata alla pena di morte, nonostante i tantissimi appelli, anche dal Santo Padre, per abolire questo indegno mostro che ci divora, ogni giorno che passa, non si capisce quale sia la ragione e lo scopo per tener in vita questa pena anacronistica.

Ho sentito parlare tantissime persone delle istituzioni, e hanno confermato che la pena dell’ergastolo in Italia deve essere abolito, ma quando poi si arriva al dunque queste persone fanno un passo indietro, e non si capisce quale sia il motivo.

L’essere umano nell’arco di tutta la sua esistenza ha dei cambiamenti sia fisici e mentali, questo è stato approvato scientificamente dalla scienza. Se non si vuole abolire l’ergastolo, perché non si cerca un’altra alternativa? Nel senso, se una persona deve rimanere tutta la sua vita in carcere, perché non inserirlo nella società tramite benefici penitenziari, in modo che lo stesso si possa fare una vita, anche se poi resta legato a quell’orribile pena. Tenere un ergastolano tutta la vita in carcere a che cosa giova? Lo stato ci tiene in vita, spreca tantissimi soldi, sì perché un detenuto costa allo stato più di cento euro al giorno. Sarebbe giusto investire questi soldi per altri motivi o per scopi umanitari.

Quello che scrivo potrebbe essere sbagliato, ma se si facesse un po’ di riflessione sull’ergastolo ostativo, qualcuno potrebbe cambiare anche modo di pensare.

Oristano febbraio 2017. Salvatore Pulvirenti.

Carmelo Musumeci semilibero

liberta

Carmelo Musumeci fu il primo detenuto che conobbi.

Dall’incontro con lui nacque -grazie anche a Nadia Bizzotto e Maria Luce- questo Blog.

Lui era il simbolo vivente degli ergastolani ostativi, l’ergastolano ostativo per eccellenza.

E lo è stato per tutti questi anni.

Anni di perseveranza totale, non solo per se stesso, ma anche per gli altri.

In tutti questi anni non ha mai smesso di credere.

E, ad un certo punto, dopo più di 25 anni di detenzione, ecco il venire meno dell’ostatività. Quella che doveva essere una via senza mai alcuna uscita, ha svoltato verso un’orizzonte dove fosse possibile immaginare una parte di vita da vivere oltre le mura, ma questa volta, dalla parte del cielo, del sole, del camminare liberi.

E adesso Carmelo, con la semilibertà che gli è stata recentemente data, può camminare libero.

La notte dovrà comunque ritornare in carcere. Ma il giorno, il giorno.. vivrà la libertà.

Questo è un momento speciale. Lo è per lui, ma lo è anche per tutti quegli ergastolani ostativi che hanno un motivo in più per sperare, credere e non arendersi.

Di seguito un testo scritto da Carmelo per l’occasione.

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“ (…) concede a Carmelo Musumeci il beneficio della semilibertà consentendogli di prestare un’attività di volontariato presso una struttura della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da Don Oreste Benzi, al servizio di persone gravate da handicap.” (Tribunale di Sorveglianza)

Oggi è uno dei giorni più belli della mia vita. Penso che più di credere a me stesso ho scelto di credere negli altri. E forse questa è stata la mia salvezza. Mi hanno notificato l’esito positivo della Camera di Consiglio sull’istanza della semilibertà. Uscirò dal carcere al mattino e rientrerò alla sera per svolgere, durante il giorno, un’attività di volontariato presso la Comunità Papa Giovanni XXIII.
Quando arrivo in cella con l’Ordinanza del Tribunale di Sorveglianza tra le mani mi gira la testa. Il mio cuore batte forte. Respiro a bocca aperta. Lontano da occhi indiscreti, appoggio la testa contro il muro e mi assale una triste felicità. In pochi istanti rivivo questi venticinque anni di carcere con i periodi d’isolamento, i trasferimenti punitivi, i ricoveri all’ospedale per i prolungati scioperi della fame, le celle di punizione senza libri né carta né penna per scrivere, né radio, né tv, ecc. In quei periodi non avevo niente. Passavo le giornate solo guardando il muro.
Poi ad un tratto scrollo la testa. Smetto di pensare al passato. Mi faccio il caffè. Mi accendo una sigaretta. E, dopo la prima tirata, medito che adesso dovrei smettere di fumare perché ora la mia unica via di fuga per acquistare la libertà non è più solo la morte. Alzo lo sguardo. Guardo tra le sbarre della finestra. Osservo il muro di cinta. Per un quarto di secolo ho sempre creduto che sarei morto nella cella di un carcere. Penso che una condanna cattiva e crudele come la pena dell’ergastolo, che Papa Francesco chiama “pena di morte mascherata”, difficilmente può far riflettere sul male che uno ha fatto fuori. Io credo di essere rimasto vivo solo per l’amore che davo e che ricevevo dai miei figli e dalla mia compagna.
Sono stati anni difficili perché non avevo scelto solo di sopravvivere, ma ho lottato anche per vivere. Proprio per questo ho sofferto così tanto. Non ho mai pensato realmente di farcela e forse, proprio per questo, ce l’ho fatta.
Adesso mi sembra tanto strano vedere un po’ di felicità nel mio futuro.
Mi commuovo di nuovo. E il mio cuore mi sussurra: “Per tanti anni hai pensato che l’unica cosa che ti restava da fare era aspettare l’anno 9.999; invece ce l’hai fatta! Sono felice per te … e anche per me”.
Quello che rimpiango maggiormente di questi 25 anni di carcere è che non ho ricordi dell’infanzia dei miei figli. Mi consolo pensando che adesso mi rifarò con i miei nipotini. Poi penso che senza l’aiuto di tante persone del mondo libero che mi hanno dato voce e luce, non ce l’avrei mai fatta.
Ho trascorso buona parte della mia vita godendo dell’unico privilegio di essere rimasto libero di pensare, di scrivere e di dire quello che pensavo: adesso che sono diventato un uomo ombra semilibero non smetterò certo la mia battaglia per l’abolizione dell’ergastolo.


Novembre 2016

1° giugno 2016- Sciopero dei detenuti contro l’ergastolo ostativo- le adesioni da Catanzaro

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Come avevo scritto nel precedente post, dal  primo giugno comincerà lo sciopero collettivo dei detenuti contro l’ergastolo ostativo. Una iniziativa, questa, partita dai detenuti del carcere di Catanzaro. 

Questa protesta ha  varie modalità di adesione (sciopero della fame, astensione dal vitto, “battiture”) e potrà essere appoggiato anche da “liberi” cittadini dall’esterno.

Riporto nuovamente il testo-manifesto di questa iniziativa:

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“L’ergastolo ostativo è il risultato di una imprevedibile interpretazione sfavorevole dell’art. 4 bisI OP affermatasi dal 2008-2009, e pertanto non applicabile retroattivamente ex art. 7 CEDU (Corte EDU, casi Kafkaris, Del Rio Prada, Contrada; Sezioni Unite della Cassazione, caso “Beschi” 2010 Corte Cost. sentt. n. 364/98 e 230/2012), e l’incostituzionalità dell’art. 4 bis1 come presunzione legale, come dimostrato dalla tesi di laurea di Claudio Conte (110 e lode con menzione accademica), Profili costituzionali in termini di ergastolo ostativo e benefici penitenziari, Uni-Cz, 2015 (in possesso del Garante nazionale detenuti prof. Mauro Palma, e del prof. Luigi Ventura, Preside della Facoltà di Giurisprudenza di Catanzaro e Relatore della tesi, che sollecitiamo il Ministero a convocare).

Da tale studio si evince che per superare l’abuso dell’ergastolo ostativo, non c’è bisogno di nuove leggi, ma di fare rispettare quelle esistenti, con una Circolare ministeriale interpretativa ai Giudici di sorveglianza.

I sottoscritti ergastolani/non ergastolani/liberi cittadini informano il Ministro che dal 1° giugno 2016 attueranno una protesta pacifica (garantita dalla Costituzione), finché Ella non ci farà sapere, anche tramite televisione, che è a conoscenza di tale studio, libero poi di ritenerlo fondato o infondato.

Ella deve sapere che nella civilissima Italia l’ergastolo ostativo  non è stato previsto dalla legge nel 1992 e che 1400 persone sono condannate a morire in carcere solo per una discutibile interpretazione opera di pochi giustizialisti, e migliaia di reclusi sono esclusi dalle misure alternative illegittimamente.

Modalità di adesione alla mobilitazione (nel testo che viene fatto circolare è presente una casella, accanto alle voci successive, che può essere barrata):

-Raccolta di firme da inviare al Ministro di Giustizia.

-Rifiuto del vitto dell’Amministrazione.

-Battitura dalle ore 16.00 alle ore 16.30 in carcere o in luoghi pubblici.

-Fermata al rientro dei passeggi (o sit-in/riunioni) dei cittadini liberi per10 minuti.

-Sciopero della fame.”


Adesso seguono le riproduzioni delle firme di adesione che sono giunte dal carcere di Catanzaro:

Firme1

firme2

firme4

firme5

firme6

 

La pena di morte mascherata… di Salvatore Pulvirenti

finepenamai

Pubblico oggi questo brano del nostro Salvatore Pulvirenti, detenuto nel carcere di Oristano.

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Uno Stato che rifiuta i valori antropologici, non ha un’etica morale.  Per valori si intendono, in senso lato, tutte le attitudini, comportamenti positivi che dovrebbero caratterizzare l’essere umano e la sua società, distinguendolo dall’animale. Oggi si parla spesso della pena di morte in Italia ma anche in tanti paesi europei. È una battaglia che dura da decenni: diciamo che in alcuni paesi è stata abolita e sostituita con pene lunghe. Attualmente il nostro paese è il primo in Europa che si batte per l’abolizione della pena di morte. Ora io vorrei fare riflettere le persone che vivono in uno stato democratico. Si è vero; il nostro paese combatte da sempre per fare prevalere i diritti dell’uomo. Pero se noi riflettiamo per un momento, nel nostro paese esistono due pene capitali: il primo è l’ergastolo ostativo escluso da qualsiasi beneficio: non puoi mai uscire, non hai un fine pena, per cui devi per forza morire in carcere, salvo collaborare con la giustizia. ll secondo e il 41 bis un regime particolare dove il condannato ha una restrizione disumana, conduce l’essere umano ai suicidio psicologico e a volte anche fisico o devastandolo psicologicamente portandolo alla pazzia. Entrambe queste pene, sono due pene di morte mascherate che tutt’oggi prevalgono in Italia. La cosa che fa molto male è quella che queste due pene sono le conseguenze che emergono durante la carcerazione. Se facciamo riferimento all’ergastolo ostativo, le cause sono devastanti, in quanto produce una serie di conseguenze legate allo stato psicologico, dopo decenni di carcere, e la consapevolezza di non poter mai uscire, fa venire fuori lo stato interiore negativo, che danneggia se stessi e le persone che ti stanno accanto. «La prima causa è la depressione che implica varie patologie allo stato mentale, come il suicidio, autolesionismo, deficit dell’attenzione e della concentrazione, insonnia, disturbi alimentari, la riduzione di percezioni. ll 41 bis ti causa l’allontanamento dai propri famigliari, la chiusura in te stesso, riduzione della memoria, riduzione delle cellule ricettori, asociale nel dialogo, e il rifiuto delle cose più care; è come essere in uno stato di abbandono. Per colmare questi malesseri, che durano parecchi anni, si ricorre a psicofarmaci, che per prima ti danno un senso di benessere, poi si entra in uno stato di assuefazione, e si addentra in un tunnel dal quale e difficile poterne uscire, se non lesionato gravemente.

Oristano 25-4-2016

Volume “Ergastolani senza scampo” di C. Musumeci e A. Pugiotto

           penitenziario

Nel discorso pubblico si ripete, monotona, la convinzione che in Italia l’ergastolo non esiste e che i condannati al carcere a vita, prima o poi, escono tutti di galera. La realtà rivela, invece, un dato esattamente capovolto: attualmente sono 1.619 i condannati alla pena perpetua e, di questi, 1.174 (pari al 72,5% del totale) sono ergastolani ostativi, ai sensi dell’art. 4-bisdell’ordinamento penitenziario.

            Sconosciuto ai più, l’ergastolo ostativo è una pena destinata a coincidere, nella sua durata, con l’intera vita del condannato e, nelle sue modalità, con una detenzione integralmente intramuraria. Una pena perpetua e immutabile cui è possibile sottrarsi solo collaborando utilmente con la giustizia.

            Il presente volume, nella sua Parte I (scritta da Carmelo Musumeci) narra con autenticità la giornata sempre uguale di un ergastolano senza scampo, scandita nei suoi ritmi esteriori e interiori – alba, mattino, pomeriggio, sera, notte – costringendo il lettore a immaginare l’inimmaginabile. Nella sua Parte II (scritta da Andrea Pugiotto), ripercorre criticamente la trama normativa dell’ergastolo ostativo, argomentandone i tanti profili di illegittimità costituzionale e convenzionale, in serrata dialettica con la giurisprudenza delle Corti, costituzionale e di Cassazione, ad oggi persuase del contrario.

            Il volume è impreziosito dall’eloquente Prefazione del Presidente Emerito della Corte costituzionale Gaetano Silvestri, che rilegge il regime dell’art. 4-bis o.p. alla luce del principio supremo di dignità della persona. L’Appendice (curata da Davide Galliani) illustra i risultati di un’inedita ricerca empirica condotta tra circa 250 ergastolani, finalizzata a rilevare le materiali condizioni di salute, fisica e psichica, derivanti da un regime detentivo perpetuo, esclusivamente intramurario, frequentemente declinato nelle forme del c.d. carcere duro (ex art. 41-bis o.p.).

            Il volume (quarto della collana Diritto penitenziario e Costituzione, nata dall’esperienza dell’omonimo Master promosso da Dipartimento di Giurisprudenza dell’ateneo di Roma Tre) è il risultato del primo progetto di ricerca UE dedicato al regime dell’ergastolo nel contesto europeo (www.lifeimprisonment.eu)

Il carcere, luogo di esclusione e di segregazione… di Tommaso Amato

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Il nostro Tommaso Amato- detenuto a Spoleto- dopo tanto tempo, ritorna a farsi sentire che due sue righe di riflessione..  come sempre, molto lucide e reali.

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Non è esagerato parlare di segregazione, perché lo Stato italiano prevede per una parte della sua popolazione l’eliminazione assoluta e definitiva dalla società, condannandola all’ergastolo ostativo, che, tradotto nei fatti, significa preclusione da ogni possibilità di speranza e di riscatto. Detta in modo molto semplice, significa che con questo tipo di condanna all’ergastolo si muore in carcere.

Alla faccia della certezza della pena!

Proprio per questi motivi l’Europa spinge affinché l’Italia ponga fine a questa situazione.

Questo istituto normativo, che prevede tale scempio, nato molti anni fa, non ha subito l’evoluzione del tempo. E’ un assoluto che sembra essere nato già perfetto, e quindi valido all’infinito. Un atto dell’uomo, figlio della demagogia umana che stride fortemente con i principi della civiltà e dell’articolo 27 della Costituzione italiana, ma che, purtroppo, produce molto in termini di popolarità, ed è pertanto intoccabile.

Spoleo 20.12.2015

Il condannato a vita Tommaso Amato

Buone feste a tutti

Le voci di dentro… di Marcello Dell’Anna

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Questo testo scritto da Marcello Dell’Anna, detenuto a Nuoro, nel carcere di Badu e Carros, è straordinario.

Marcello, entrò in carcere, per reati connessi alla criminalità organizzata, all’età di 22 anni.

Da allora è rimasto ininterrottamente in carcere, passando da detenuto oltre 25 anni dei suoi 47 anni di vita.

Il suo è stato un percorso straordinario. In carcere si è laureato, ha scritto libri, ha ottenuto attestati ed encomi.. ha fatto un percorso interiore che l’ha reso capace di essere una voce di civiltà, cultura, equilibrio.

Il testo che pubblico oggi è uno di quei testi che sono impedibili. Ci sono testi che hanno un respiro, una potenza, una capacità espressiva, un’anima che permette loro di andare oltre ogni confine, di lasciare un segno, anche quando quel segno sembra non vedersi ancora. 

Voglio citare uno dei tanti passaggi di grande intensità presenti in questo testo:

“Il contesto carcere è tanto più vario, movimentato, caotico e disordinato (anche sotto il profilo dell’attenzione alle relazioni interpersonali) quanto più è affollato. Qui infatti il tempo è rapido e lento, e non sembri una contraddizione. Le procedure si susseguono incalzanti, ma il progetto futuro è in sospeso, da riscrivere, perché il soggetto detenuto non conosce ancora quanto tempo non sarà in grado di gestire in piena autonomia e autodeterminazione. Nel tempo sospeso, non progettato, incerto, ogni comunicazione, parola, giudizio può pesare come un macigno, assumere contorni inaspettati, ingiustificati altrove, ma perfettamente prevedibili qui. Così, un familiare che comunica al congiunto detenuto che si assenterà per ferie scatena vissuti di abbandono talmente forti da desiderare la morte per cessare di soffrire; un colloquio saltato per uno qualsiasi dei validissimi motivi possibili è interpretato come disinteresse o prova di un pericolo occorso al congiunto; un operatore che scredita e offende le radici culturali può mortificare nel profondo e far crescere una rabbia generalizzata, un pregiudizio figlio del pregiudizio ricevuto; un giudice che rifiuta di acquisire delle prove può convincere che la giustizia non è equa e rinforzare il vissuto vittimistico, che sfocia nella scelta di immolarsi in quanto vittima sacrificale del sistema; un avvocato che “caldeggia vivamente” il patteggiamento prima ancora di ascoltare la versione dei fatti del suo assistito persuade che la verità non esiste e non interessa a chi deve ricercarla e ricostruirla con la maggiore imparzialità possibile; un cancellino che sottrae poveri effetti personali (prima fra tutte le sigarette, la biancheria intima, le foto dei familiari) scatena una rabbia cieca, o una remissività ancora più pericolosa qui. Una minaccia strumentale, sottovalutata e ridicolizzata, può trasformarsi in una tragica realtà. “

Prima di lasciarvi alla lettura de “Le voci di dentro” di Marcello Dell’Anna, due parole di presentazione da parte della nostra Grazia Paletta.

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Ritengo eticamente giusto e necessario parlare di carcere, conferirgli esistenza e dignità in questo mondo  di quasi giustizia e finta legalità che continua ad assicurare protezione e tranquillità agli ignavi cittadini che preferiscono deliberatamente confinare, oltre le mura, la devianza, seppur generata dalla stessa società alla quale affidano i loro sonni beati. E’ giusto e doveroso parlarne, ovunque e con chiunque, siano le platee e i dissertatori degli addetti ai lavori o semplicemente persone con una coscienza illuminata, è importante che se ne discuta, si approfondisca, si desideri conoscere e magari porsi in condizione di comprendere.

Ma, io credo, è primariamente indispensabile fermarsi ad ascoltare le loro voci, interpretare i loro scritti, per conoscere quale sia “davvero” la connotazione di un’esistenza serrata e, nel caso del Dott. Dell’Anna e degli altri ergastolani ostativi, un’esistenza priva di speranza giuridica e umana. Perché, come egli afferma “Piaccia o non piaccia, dunque, se si vuole conoscere più a fondo e dal di dentro il carcere e i suoi problemi, nel carcere bisogna entrare.”

E se non si ha l’opportunità o la determinazione per varcare gli innumerevoli cancelli che separano il bene dal male, almeno porsi in ascolto, lasciar scorrere le loro voci, permettere agli occhi di tradurre la lettura dei loro scritti in un semplice linguaggio dell’anima che ogni essere umano può scorgere, quel linguaggio che il rispetto e la dignità permettono di coniugare in lingua comune.

Nelle riflessioni di Marcello, intense e pregnanti, ho rivisto sguardi, momenti, desolazioni, ho riconosciuto quel “tempo” maldestro che diventa cemento, pietrifica e involve anziché scorrere e mutare, e ho riconosciuto voci, storie, vite sperdute e futuri inchiodati in quel “Paese delle meraviglie” che stupisce per la sua alterità, nel suo essere tuttavia radicato nel cuore delle metropoli.

“Molto spesso ho la sensazione di muovermi all’interno di un contesto assolutamente imprevedibile, vario, multiforme, multilingue, sfaccettato per modalità di rapporto tra noi e il personale. Ecco, ho come l’impressione di muovermi in un campo minato…”, con queste parole Marcello Dell’Anna descrive lo stato d’animo che io stessa ho molte volte provato entrando, seppur per poche ore, ho avvertito la precisa sensazione di camminare in una palude, tutto è fermo e  stagnante, ma ad ogni passo non sai che cosa ti aspetta e il terreno qua e là sembra inghiottire.

Come un’immensa pozza di sabbie mobili, circondata da un’avvinghiante vegetazione.

Ci vuole coraggio per inoltrarsi, ma se si ha la forza di procedere è possibile ammirare fiori di loto che aspettano di essere colti, alcuni nati per intrinseca volontà, poi altri, e sono molti, che necessitano di mani capaci di sciogliere il fango.

Grazia Paletta

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LE VOCI DI DENTRO

Questione Giustizia 2/2015

Il carcere reale. Ripreso dall’interno

di Marcello dell’Anna *

Il carcere in presa diretta, raccontato da chi ci vive dentro, da un “fine pena mai” che continua ad attraversare corridoi, sezioni, celle. Scorrono, dunque, le immagini di una staedycam che non si limita a registrare l’ambiente, ma ne racconta gli effetti sul vissuto di anima e corpo. Tra ansie, frustrazioni, processi di vittimizzazione e una promessa mai completamente attuata: quella costituzionale, secondo la quale nessun uomo è perso.

  1. Un “aggettivo” tra le sbarre

Dirvi il nome? Al suo posto preferisco quello che orami può considerarsi un “aggettivo”: sono un detenuto; uno di quelli, come si dice, di lunga pena. Lo dico per specificare il contesto della dissertazione. Dei miei 48 anni – appena poco più che ventenne venni arrestato per la prima volta (febbraio 1988) – ne ho passati in prigione oltre 26, rimanendo in libertà per soli diciotto mesi. Adesso, mi trovo ininterrottamente detenuto da circa 23 anni. Della legge penitenziaria, dunque, posso raccontarvi tanto, perché vissuta personalmente in restrizione, a partire dagli anni in cui la Legge Gozzini (varata nel 1986) dava un nuovo senso alla pena e nuova vita alle promesse della riforma del ‘75, sino ad arrivare alle “leggi d’emergenza” varate tra il 1991 e il 1992, introdotte a seguito dell’escalation del fenomeno mafioso e, più in generale, della criminalità organizzata. In quegli anni vennero varate le norme sul divieto di fruire dei benefici penitenziari (4-bis e 58- ter o.p.) per coloro che venivano condannati per reati riconducibili alla criminalità organizzata. Venne inserito, nell’art. 41-bis o.p., il comma 2°, ossia il famigerato “carcere duro”. Furono gli anni della riapertura di due storici penitenziari insulari, ossia Pianosa e Asinara. E, sempre in quegli anni e poi in quelli successivi, il Dap, in applicazione dell’art. 14 della legge del 1975, e delle norme regolamentari, si orientò per la differenziazione dei circuiti carcerari, istituendo con delle circolari due livelli carcerari, il primo cd di Media sicurezza (Ms) e il secondo cd. di Alta sicurezza (As), regolati e riformati successivamente negli anni. Ho vissuto sulla mia pelle questi cambiamenti normativi che hanno inciso in modo grave sulla mia vita. Oggi si fa un gran parlare di carceri, di sovraffollamento, delle conseguenze che ne derivano e che sono legate ad esso: la questione igienico-sanitaria, la coabitazione angusta oltre che coatta; poi, ancora, la lentezza della giustizia nel porre rimedio, le espressioni di malessere e disagio nelle varie forme. Ma la popolazione, specie quella sedicente esperta, almeno nella stragrande maggioranza, non sa realmente nulla di “questo mondo”. Un conto è conoscere i dati – freddi, descrittivi, distaccati – e un altro è vivere le implicazioni, calde, umane, sofferte. Quelle che io vivo ogni giorno. Ma, infondo, direste, «cosa vuoi…, te la sei andata a cercare….!». Ed ecco pronta una delle solite insipide risposte che spesso vengono date in modo sbrigativo e superficiale. L’intento di questo mio scritto è di offrire, a quanti non conoscono il metalivello di questa cultura reale e diversa da quella del “mondo di fuori”, alcuni spunti di riflessione, delle chiavi di lettura per comprendere con più cognizione, sentore emotivo e verosimiglianza, il contesto detentivo e così riuscire a capire, o quantomeno tentare di farlo, gli scenari che si realizzano e si manifestano al nostro mondo interno. E voglio far capire i devastanti effetti psicofisici che procura la pena dopo qualche decennio di carcere. Non potete nemmeno immaginare lo smarrimento e la paura che ho provato durante alcuni permessi speciali che ho fruito da uomo libero, dopo aver espiato vent’anni di carcere. Oggi, infatti, non sconto più la mia pena ma la subisco e basta, con delle gravose conseguenze psicofisiche.

  1. Esistere in carcere

Ecco, iniziamo da qui. Desidero concentrarmi infatti sul mal di esistere in carcere, sulle forme di quel disagio, che io sento e manifesto troppo spesso. Desidero farvi comprendere cosa c’è dietro e oltre le sbarre, il più delle volte generato da fattori che nella società libera passerebbero in secondo piano o verrebbero tralasciati, giudicati come futili. Già in letteratura viene rilevato che il primo fattore di rischio è l’incarcerazione. Come a dire che il solo fatto di averci messo piede, in galera, già implica il rischio potenziale che la persona detenuta manifesti disagio adattivo e psicofisico. E, aggiungo io, per sempre. Che dire poi degli altri fattori di rischio oggettivi, ovvero quelli che in qualche modo possono rinvenirsi sulla carta (il nostro fascicolo); dati anagrafici, giovane età, tipologia di imputazione, visibilità sociale per- sonale o mediatica della vicenda, condizioni di salute accertate (stato di tossicodipendenza, disturbo men- tale, ritardo mentale, malattia cronica che richiede assistenza costante, disturbo/malattia che richiede riabilitazione fisica, invalidità civile…), prima carcerazione ma anche precedenti ingressi con franchi episodi disadattivi (continui cambi cella, episodi reattivi sia in senso auto lesivo che etero aggressivo, quindi nutrito curriculum di rapporti disciplinari), mancanza di riferimenti e risorse esterne (povertà sociale, lunga disoccupazione/inoccupazione), mancanza di valido supporto dalla rete affettiva familiare e sociale (separazioni, espulsioni dal contesto abitativo in virtù del disagio personale e della perdurante condotta di violazione delle regole della convivenza intra familiare e della collettività), eventuali lesioni riportate in occasione dell’arresto, solo per citarne alcuni. Ma potrei continuare…

E ancora vanno aggiunti gli aspetti soggettivi, ovvero le manifestazioni afferenti al linguaggio, al pensiero, all’umore, alla postura, al tipo di interazione e collaborazione che il detenuto manifesta ed esprime durante il colloquio coi diversi operatori con cui entra in contatto. Ma sono fattori soggetti- vi anche tutte le manifestazioni espresse durante la carcerazione, come risposta personale e individuale, alle sollecitazioni che arrivano dal contesto carcere e da quello che ruota attorno: tribunali e famiglia in primo luogo. Questo significa, e non bisogna certo scomodare la letteratura, che a fronte di fattori analoghi le reazioni delle persone possono essere completamente diverse e all’apparenza ingiustificabili. Già, all’apparenza! Il carcere infatti è come il Paese delle meraviglie, dove i legami, i rapporti, le parole, i sentimenti, il tempo, lo spazio, il giudizio, la terapia… hanno espressioni e significati che valgono solo qui, che restano sconosciuti, inimmaginabili al mondo esterno. Dico il mondo esterno, perché il carcere è un pianeta a sé, è un altro mondo, dentro e fuori dal mondo reale, un accozzaglia di incoerenze e incongruità.

  1. Un campo minato

Molto spesso ho la sensazione di muovermi all’interno di un contesto assolutamente imprevedibile, vario, multiforme, multilingue, sfaccettato per modalità di rapporto tra noi e il personale. Ecco, ho come l’impressione di muovermi in un campo minato: a volte so dove sono nascoste le mine e riesco a disinnescarle; altre volte restano abilmente celate o dissimulate, oppure si disattivano da sé per effetto dei processi di evoluzione personologica comunque in corso, compresa l’assunzione costruttiva della responsabilità, il riavvicinamento affettivo; altre volte ancora, pur riuscendo ad individuarle, i mezzi per ridurle all’impotenza, per disattivarle non sono in mio possesso… ed ecco l’imprevedibile… atti autolesionisti, se non il peggio… il suicidio. Insomma è un cortocircuito che quando scatta fa perdere vite umane che potrebbero essere salvate e recuperate alla speranza, alla collettività civile, mentre i contendenti (attori del sistema carcere, giustizia, società civile) “perdono tempo”, citandosi addosso. Un cortocircuito che si avvita nelle giornate uguali a se stesse. Il giorno sopravvivo e patisco il caos carcere. Di notte soffro invece i silenzi. Il silenzio in carcere è un silenzio assordante che ti colpisce dritto al cuore. Non è un silenzio normale, ma diverso, animato, nel senso che prende vita. Il silenzio mi fa sentire le angosce, i sospiri, le voci mute di coloro i quali sono già stati in queste mura, che magari ho conosciuto, ma che oggi non sono più vivi.

Il contesto carcere è tanto più vario, movimentato, caotico e disordinato (anche sotto il profilo dell’attenzione alle relazioni interpersonali) quanto più è affollato. Qui infatti il tempo è rapido e lento, e non sembri una contraddizione. Le procedure si susseguono incalzanti, ma il progetto futuro è in sospeso, da riscrivere, perché il soggetto detenuto non conosce ancora quanto tempo non sarà in grado di gestire in piena autonomia e autodeterminazione. Nel tempo sospeso, non progettato, incerto, ogni comunicazione, parola, giudizio può pesare come un macigno, assumere contorni inaspettati, ingiustificati altrove, ma perfettamente prevedibili qui. Così, un familiare che comunica al congiunto detenuto che si assenterà per ferie scatena vissuti di abbandono talmente forti da desiderare la morte per cessare di soffrire; un colloquio saltato per uno qualsiasi dei validissimi motivi possibili è interpretato come disinteresse o prova di un pericolo occorso al congiunto; un operatore che scredita e offende le radici culturali può mortificare nel profondo e far crescere una rabbia generalizzata, un pregiudizio figlio del pregiudizio ricevuto; un giudice che rifiuta di acquisire delle prove può convincere che la giustizia non è equa e rinforzare il vissuto vittimistico, che sfocia nella scelta di immolarsi in quanto vittima sacrificale del sistema; un avvocato che “caldeggia vivamente” il patteggiamento prima ancora di ascoltare la versione dei fatti del suo assistito persuade che la verità non esiste e non interessa a chi deve ricercarla e ricostruirla con la maggiore imparzialità possibile; un cancellino che sottrae poveri effetti personali (prima fra tutte le sigarette, la biancheria intima, le foto dei familiari) scatena una rabbia cieca, o una remissività ancora più pericolosa qui. Una minaccia strumentale, sottovalutata e ridicolizzata, può trasformarsi in una tragica realtà. Potremmo continuare con esempi di vita quotidiana che fuori avrebbero un altro respiro, un’altra opportunità di essere gestiti, perfino quella di soprassedere saggiamente.

Qui dentro no, tutto è amplificato perché rimbalza all’interno di strette mura, tra stretti legami, tra rapporti che non si controllano, tempi che sfuggono, futuro sospeso, protagonismo passivo; qui le energie non si rinnovano, le persone non si ricaricano, non trovano occasioni, se non sporadiche, di rimotivarsi alla speranza, di riscattarsi. In un tale contesto, lo ripeto, le parole, i fatti, i rapporti interpersonali assumono un significato che è difficile da definire esattamente, da interpretare verosimilmente anche da noi detenuti. Anche quando ci riusciamo – perché i segnali premonitori ci sono, sono stati numerosi e registrati –, avanzando anche proposte per meglio gestirli per scongiurare il peggio, ci scontriamo con un fuori che non ci ascolta, che decide di soprassedere. Manca la collaborazione franca, la mutua conoscenza, essenziale per costruire la fiducia reciproca, per realizzare la sinergia tra le risorse, per condividere in modo equo la responsabilità delle vite assegnate dal sistema a parti di se stesso (carcere e giustizia). Manca la convinzione, realistica e prettamente umana, che è impossibile scongiurare il rischio anche suicidario e non accettare (almeno qualcuno) che di fronte al libero arbitrio l’illusione di onnipotenza e controllo si possa infrangere.

A volte il “sistema” si mostra sordo e cieco e poco importa se il disordine mentale del soggetto detenuto – unito alla rabbia crescente per l’insoddisfazione delle “necessità primarie” (telefonata, colloqui, lavoro, sigarette, terapie), per la frustrazione dei bisogni del momento (uscire dalla cella e dal proprio isolamento per allontanarsi da un contesto di ulteriori limitazioni che si aggiungono alle privazioni del carcere) e per una convivenza forzata con altri sfortunati – lo esaspererà fino a fargli perdere il controllo. La galera è un universo di ripetizione, di riproduzione. Un posto dell’attesa e della pazienza simulata, del fare, disfare e rifare; del tempo sospeso. La galera è un teatro, e come nel teatro si invecchia persino in un modo truccato. Le difficoltà quotidiane della sopravvivenza dietro le sbarre, dentro “questo ballo fermo del tempo”, sono inimmaginabili.

Il tempo qui non ha un senso, è un tempo insensato le cui regole disciplinano la staticità delle persone. Infatti, le giornate in carcere sono tutte uguali, ritmiche, gestuali (alzarsi la mattina dal letto, fare ginnastica, pulire, scrivere, mettersi a letto la sera e… il giorno seguente… torni a fare le stesse cose… identico al primo… per giorni, mesi, anni, decenni), vissute solo per difenderci dal senso del nulla, dal senso del vuoto, dalle ansie, dalle paure, dall’assenza di risposte. Corpi e menti che si ammalano velocemente, quando invece hanno bisogno di essere curati, ascoltati, considerati, valorizzati. Cerchiamo di tenerci in vita e di non perdere l’identità di persone umane, in un luogo che di umano ha ben poco e sopravviviamo pensando agli affetti, ai nostri cari. Ci manteniamo dentro questa strada, l’unica che tiene in vita, perché fuori da essa c’è solo “l’anormalità” della pena, quella anormalità che tende a togliere e mai a dare. Il carcere, inteso come solo luogo di restrizione, non «corregge» il reo ma lo abbruttisce, lo peggiora, lo annienta e tali amputazioni di vite non sono dovute solo a questioni strutturali, come qualcuno cerca di giustificare. La problematica è molto più complessa.

Il nostro sistema penitenziario migliorerà solo quando le istituzioni – una volta e per sempre – considereranno il detenuto una persona umana e non un mero fascicolo che va archiviato, ovvero un reato che cammina; migliorerà, insomma, solo quando il sistema capirà che, nonostante la privazione della libertà, i detenuti conservano, comunque, intangibili e inalienabili diritti civili. Quando una pena non la si sconta più ma la si subisce soltanto, tutto il tempo che eccede è una lesione del diritto alla dignità e alla salute. Per tanto tempo, troppo tempo, sono stato sottoposto ad un regime i cui “motivi di sicurezza” – è bene dirlo ai più e ricordarlo ai sedicenti addetti ai lavori – mi hanno privato anche delle cose più semplici. Non potevo tenere oggetti come l’accendino, che dovevo chiedere al poliziotto carcerario ogni volta che dovevo accendere il fornellino e, dopo l’uso, dovevo subito riconsegnarlo insieme allo stesso fornellino; non potevo tenere i prodotti per l’igiene personale, ma dovevo chiederli al momento dell’uso e subito restituirli, non potevo tenere qualunque oggetto, dalle matite colorate alla radiolina, dalle cinture alle stringhe, che potevano essere utilizzate come armi improprie, non potevo preparare tè o caffè perché non si potevano tenere pentolini, caffettiere e bombolette. E potrei continuare.

  1. Numeri assurdi. La questione dell’ergastolo ostativo

Ora vorrei parlarvi del “Fine Pena MAI”. Così è riportato su alcuni dei miei atti giudiziari. In altri, invece, trovo curioso come “qualcuno”, forse per pietosa concessione, ha voluto porre un termine al mio “fine pena” scrivendo al fianco della mia condanna una precisa data: “Fine della pena” al 31/12/9999. Numeri che oltrepassano l’assurdità sino a rasentare la beffa. Di recente, invece, a quei numeri ho dato un senso quando ho ascoltato le parole di Papa Francesco. Nel suo lungimirante discorso ha definito l’ergastolo una pena di morte nascosta. Ecco, vi parlo di ergastolo. Di quello ostativo, intendo. Una pena di morte nascosta, della quale pochi comprendono il senso. Una legge, a mio avviso fuori dalla Costituzione, perché ricattatoria e di cinquecentesca memoria, che rimette la libertà di una persona alla condizione che… ne metta un’altra al suo posto. Nel senso che per ottenere i benefici di legge (misure alternative o premiali) o il detenuto collabora con la giustizia – e poco importa se uno abbia già espiato 20 o 30 anni di carcere e, nel frattempo, sia divenuto una persona emendata – oppure deve trovarsi nella impossibilità o inesigibilità di dare un utile apporto collaborativo, sempreché tutti i fatti e le responsabilità siano stati accertati giudizialmente. Se non sono stati accertati… pazienza! Moriranno in prigione. Come morirà quell’innocente – e gli errori giudiziari in Italia non mancano – perché non può nemmeno collaborare pur volendolo. Ma intanto può scrivere il suo necrologio. Ecco, una legge, la nostra, quella per noi ostativi diversa da quelle vigenti per gli ergastolani normali, una legge fatta per noi che di normale, invece, non abbiamo nulla, siamo gli “ostativi”, i peggiori, quelli da nascondere, da ignorare per sempre, eternamente colpevoli.

Eccoci qui, in queste sezioni, né vivi, né morti, relegati ad un limbo senza tempo e senza dignità e da cui spesso è impossibile uscire. Ma c’è il non previsto, elemento nascosto in qualsiasi macchina sociale, anche la più perfetta – e c’è da sottolineare che la nostra perfetta non è – che emerge e si fa strada nel momento in cui, pur sospeso tra vita e morte, il detenuto decide di ritrovare la sua connotazione umana. Come ho fatto io, come hanno fatto altri come me. Ecco, io ho deciso di vivere comunque, con lo sguardo alzato, rendendomi degno di far capolino da questa falla della struttura giudiziaria che è “l’ergastolo ostativo” e dimostrare a me stesso e agli altri che sono un uomo adeguato alla mia natura umana, trasformato, migliorato, non più l’uomo del reato, bensì un portatore di cambiamento, di esempio, capace di adattarmi e di credere come persona migliorata anche nelle peggiori condizioni. Oggi, dopo tanti anni trascorsi in queste mura, se mi guardate negli occhi vedrete sicuramente che quella pena si sta abbattendo su di un altro uomo, contro un Marcello che è cambiato, s’è sviluppato, ha coscienza del male fatto, tanto da non dimenticare nemmeno per un istante il dolore che ha potuto arrecare ai familiari delle vittime delle sue sconsiderate azioni di un tempo. Oggi, di certo, rimane solo il fatto che non c’entro più nulla con il crimine che commisi. E il perdono che ho ricevuto da tante persone mi fa molto più male della condanna inflitta, perché non mi ha ancora permesso di trovare una giustificazione al male compiuto.

Con la società esterna, oggi, sono pronto a ricucire quel patto che un tempo ho violato e vorrei che «queste mie esplicite scuse» rivolte a tutto il consorzio sociale venissero intese come reale segno della mia sincera contrizione. Oggi, di certo, sconto la mia pena con sofferenza e dignità, non subisco il fallimento, non mi faccio spersonalizzare, annientare, annullare dalla restrizione del carcere e dalle catene mentali che lo animano, riuscendo a vincere ogni asservimento che impone il crimine sulla persona detenuta con le sue sub-regole carcerarie facenti parte di uno squallido codice non scritto, arcaico e vassallatico. Sono ritenuto un ergastolano, è vero, ma – aggiungo io – facente parte però della migliore riuscita dell’Amministrazione penitenziaria. Perciò oggi cerco riscatto ed emenda, sperando di riparare al male commesso.

Il paradosso del nostro diritto penale, dal quale derivano i mille mali e le mille afflizioni del sistema carcerario, è che l’ergastolo, in specie quello ostativo, non soddisfa nessuna sete di giustizia, ma solo quella della vendetta, tesa ad oscurare, a nascondere, ad annientare. E qui comincia l’orrore. Perché l’incarcerazione perpetua amputa vite, sfascia le menti, degrada gli animi. Purtroppo, non viviamo in un Paese che prova a risolvere i problemi delle sue prigioni. Persino solo presumerlo è utopistico. L’orrore implicito può essere che tutti ormai viviamo dentro i tessuti gonfi di un corpo politico permeato di cattiva coscienza, così cattiva che la risata di una iena riecheggia da ogni televisore, con il rischio di diventare il nostro vero inno nazionale. Per questo nel nostro Paese tutti parlano di migliorare le prigioni ma nessuno concretizza davvero questo cambiamento. Dopo tutti questi anni, conosco la prigione come il traghettatore conosce il passaggio per l’Ade. Ma il mondo, lo conosco solo attraverso i libri, dato che in quel libero mondo ci ho vissuto solo per poco tempo. Intervenire sull’ergastolo ostativo, quindi, non significa cancellare la responsabilità di una colpa accertata, ma semplicemente permettere alla speranza di poter continuare a fiorire anche su un binario morto della nostra umanità. Oscurare per sempre la parola speranza dal mio cuore è un po’ come costringere un bambino a imparare un mestiere e, poi, lasciarlo chiuso dentro l’angustia della sua camera. Vivrà, crescerà fino a sentirsi quasi bene, ma un giorno sospetterà di essere… un morto che cammina.

  1. Entrare in carcere. Per cambiarlo

Piaccia o non piaccia, dunque, se si vuole conoscere più a fondo e dal di dentro il carcere e i suoi problemi, nel carcere bisogna entrare. Non intendo farsi arrestare, cosa avevate capito, intendo visitare le strutture carcerarie e capire la vita “chiusa” dall’interno.  Il carcere non è più una fortezza, né all’opposto una più o meno confortevole e temporanea dimora, ma qualcosa di più, specialmente per coloro che vi sono ristretti e per il personale, civile e poliziotti penitenziari, che ci lavorano con non poche criticità. Nel nostro e negli altri Paesi europei, il passaggio del sistema sanzionatorio dalle pene corporali alla pena del carcere si è realizzato nella seconda metà del ‘700, sulla spinta dell’Illuminismo. Da allora la condizione carceraria italiana è decisamente cambiata, dapprima con l’entrata in vigore della Costituzione il 1° gennaio del 1948 e poi del nuovo Ordinamento penitenziario approvato con la Legge del 26 luglio 1975 n. 354, proprio alla legge fondamentale essa ispirato. Quest’anno, la Legge penitenziaria compirà i suoi primi quarant’anni. Un’età matura che il nostro ordinamento carcerario però non dimostra, perché le sue norme furono scritte da persone lungimiranti che riuscirono a vedere molto lontano. Per questo la nostra legge carceraria è ancora oggi giovanile, al passo coi tempi.

Il 30 giugno del 2000 è stato varato il «nuovo regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà». Esso, approvato a 24 anni dal precedente (1976), ha inteso disciplinare nel dettaglio la quotidianità detentiva con l’intento di elevare le condizioni di vita dei detenuti e rendere effettivi diritti altrimenti enunciati solo sulla carta. Tuttavia, continuano le difficoltà e le criticità. Per ottenere un’inversione di tendenza bisognerebbe ricorrere ad un maggiore utilizzo delle pene alternative. E per farvi fronte bisognerà ampliare la giustizia riparativa, potenziare la magistratura di sorveglianza, incrementare i rapporti con gli Enti locali e le Regioni. Bisognerà, insomma, applicare fino in fondo quella legge del 1975. I problemi sono presenti e devono essere affrontati in un settore dove la legislazione primaria è tuttora incompleta, dove l’Amministrazione penitenziaria è lasciata in genere sola nel suo isolamento tradizionale, dove il carcere e le istituzioni carcerarie si devono arrangiare da sole, badando di disturbare il meno possibile i sonni di chi sta fuori, di chi gode della libertà e non ha né tempo né voglia di pensare anche per gli altri, che tale libertà non hanno, poiché – evidentemente – non la meritano.

Insomma si deve restaurare la dignità dello stare in carcere e la necessità di leggere la detenzione alla luce dei principi e dei diritti costituzionali; ripartendo dalle condizioni materiali di chi vive all’interno del carcere, per provvedere ad un vero cambiamento. Su una cosa vorrei soffermarmi, in quest’ottica di cambiamento. Bisogna introdurre nel nostro ordinamento un “diritto all’affettività”, concesso in diverse carceri europee. Non è un’eresia ma una questione di dignità. Un modo per recuperare alla società delle persone integre, anche negli affetti. È un tema che le nostre istituzioni dovrebbero affrontare con più attenzione per prevenire in molti casi il disfacimento di tante coppie e di tante famiglie. Provate ad immedesimarvi nel congiunto di una persona detenuta e privarvi per 5, 10, 20, 30 anni, di quell’affettività che è un pilastro portante che sorregge l’amore. A poco a poco la fiamma dell’amore diventerà un lumicino che, al primo piccolo problema che soffierà, si spegnerà, con le tragiche conseguenze che ne derivano. Sono soprattutto i figli a subire forti traumi a livello psicologico. Poi il genitore detenuto, il quale avendo le mani legate non può risanare la situazione. Con il passare dei giorni si perde anche quel poco di tranquillità che è rimasta, si diventa irascibili, per sfogo si arriva all’autolesionismo, all’aggressività verso tutti, spesso al suicidio. Ecco perché è importante, anche, poter espiare la pena in un carcere vicino ai propri affetti. Uno stato civile non può assolutamente accettare il mantenere in vita questa problematica. Sono molti i detenuti ai quali è capitato di trovarsi impacchettati o, per meglio dire per chi non conosce il termine, trasferiti lontano dal luogo di residenza 1000 o addirittura 1500 km. Chilometri che, tradotti in viaggio di andata e ritorno, diventano il doppio, ma questo soltanto per chi ha possibilità economiche e riesce a raggiungere il carcere per fare colloquio. Ci sono, invece, i “poveracci e le poveracce”, detenuti che non vedono i propri cari da anni. Ciò provoca inevitabilmente stati d’animo ansiosi e stressanti. Appare assai difficile riuscire a capire perché si voglia far pagare anche ai familiari una pena, la quale non può che apparire ingiusta e priva di qualsiasi rispetto del senso di umanità. Non resta, quindi, che augurarci una concreta svolta, un cambiamento reale teso al miglioramento dei valori della persona ristretta e corrispondente ai dettami costituzionali.

* Marcello Dell’Anna è nato il 4 luglio 1967 a Nardò (Lecce). Sconta una condanna all’ergastolo nel carcere di Badu e Carros, a Nuoro; è sposato ed ha un figlio di 27 anni. È un detenuto con il tarlo dello studio e della scrittura. Nel corso degli anni di detenzione, infatti, gli sono stati conferiti diversi encomi. Ha conseguito diplomi di scuola superiore e nel 2012 si è laureato in giurisprudenza col massimo dei voti.

1 Termine con cui in carcere si definisce il compagno di cella.

La seconda volta che piansi… tratto da “Tutta la verità” di Mario Trudu

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Inserisco oggi un altro brano tratto dal libro di Mario Trudu, “Totu sa beridadi- storia di un sequestro- Tutta la verità”.

Mario Trudu, attualmente nel carcere di San Gimignano, è uno dei detenuti da più lungo tempo in carcere, uno dei simboli della barbarie dell’ergastolo ostativo. 

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La seconda e ultima volta che piansi

Il grande fumatore che era affianco alla mia cella venne spostato e al suo posto misero un certo Gianni nativo di Orani, anche lui arrestato nell’ambito dell’Anonima. I detenuti che lo conoscevano dalle finestre gli chiedevano di bussarmi al muro e chiedermi chi ero, e ogni tanto lui bussava ma io non rispondevo a causa della mia diffidenza, finché un giorno persi la pazienza e sbottai: “Ite cazu oles!” (Che cazzo vuoi!). Lui mi rispose che voleva sapere chi ero. “Pagu ti ndhi ‘mportat de xini soe eo” (poco te ne importa di chi sono io) dissi, e da quel giorno non mi chiamò più.

Trascorse più di un mese fra le solite arroganze e privazioni quotidiane. I primi di marzo venne un brigadiere e mi disse di prepararmi che dovevo andare in matricola, mi fecero entrare in una stanza, mi aspettavo di trovare il giudice, invece c’era mia sorella Antonietta.

Non ero preparato a quell’incontro, lo aspettavo da un anno, ma la visita di Antonietta mi colse di sorpresa. Mi venne da piangere, era l’emozione. E’ stata, dopo l’addio alla mia donna, la seconda e ultima volta che ho pianto in carcere. Il carcere mi ha prosciugato, mi ha tolto quell’emozione che è necessaria per sfogare e attutire il dolore che la vita alle volte ci riserva.

Mia sorella resistette e non pianse. Il colloquio lo facemmo alla presenza di un maresciallo e due brigadieri, durò circa un’ora e riuscii a mala pena a chiedere della salute degli altri famigliari. Era come se mi avessero svuotato la testa, non riuscivo a concentrarmi eppure avevo tante di quelle cose da dire e da chiedere che avrei potuto parlare per giorni di fila.

A quel punto mi aspettavo di potere fare il colloquio ogni settimana, ma prima di avere un nuovo colloquio passarono due mesi. Non avevo ancora una volta messo in conto la malvagità di Lombardini, ma non aveva capito che non avrei mai ceduto ai suoi vili ricatti. Ero innocente e non avevo niente da dirgli.

Il 2 aprile venne nuovamente Lombardini con il mio avvocato e mi chiese se avevo niente da dire sul secondo mandato di cattura che mi era stato consegnato con l’accusa di duplice omicidio, gli risposi di no e chiesi nuovamente il confronto con il mio accusatore. Per l’ennesima volta mi disse no e a quel punto finì l’interrogatorio che era durato non più di cinque minuti. Era la terza volta che Lombardini m’interrogava e fu anche l’ultima. Non lo rividi più e non lo rimpiansi.

Il 24 aprile si costituì il latitante Piero Piras, mio paesano e coimputato. Mi meravigliai, non era mai successo che un latitante imputato di reati così gravi si arrendesse alla legge, forse era convinto di poter dimostrare la sua innocenza ma non era il momento giusto, i testimoni a difesa non venivano ascoltati, in quegli anni contava soltanto l’accusa e venne condannato come tutti noi.

Dopo oltre un anno di isolamento totale, il giudice consentì il secondo colloquio e da allora li feci regolarmente ogni settimana.

Negli ultimi mesi di isolamento alle volte davanti al cubicolo dove andavo all’aria passavano altri detenuti che rientravano dall’aria per tornare in cella e ogni volta mi salutavano, ma io non conoscendoli non rispondevo. Alla fine si erano stancati di salutarmi senza ricevere risposta e un giorno uno di loro mi disse: “A da caccas sa maledda”. Io mi aggrappai al cancello e risposi con parole offensive, sono certo che in quel momento sembravo un pazzo, e quello mi disse ridendo: “tandhu jai dha portas sa limba” (allora ce l’hai la lingua) e passarono oltre.

Quando fui tolto dall’isolamento incontrai quel gruppetto di persone. Andrea di Orune, Gesuino di Mamoiada e Pasquale di Orgosolo. Spiegai loro perché non rispondevo al saluto, da allora diventammo amici e all’aria abbiamo passato dei momenti di allegria ricordando quest’episodio.

Marcello Bortolato (Giudice di Sorveglianza) : Si alla revisione dell’Art. 4 bis ed all’abrogazione dell’ergastolo ostativo

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Pubblico oggi questo intervento che giunge da Emilio Quinieri, esponente dei Radicali Italiani e da sempre in lotta per i diritti dei detenuti. Molti lettori di questo Blog già lo conoscono.

In questo pezzo, emerge la voce di un Magistrato di Sorveglianza, Marcello Bortolato, che è di quei giudici che non dimenticano che cosa sia il diritto, che cosa sia la giustizia, e che cosa sia la Costituzione.

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14 giu 2015 — Mentre il Senatore del Movimento Cinque Stelle Mario Michele Giarrusso, critica pesantemente l’On. Enza Bruno Bossio, Deputato Pd e membro della Commissione Bicamerale Antimafia, per la proposta di legge AC 3091 presentata lo scorso 4 maggio 2015 alla Camera dei Deputati, sottoscritta da altri Parlamentari del Partito Socialista Italiano, di Sinistra Ecologia e Libertà, Scelta Civica per l’Italia e Alleanza Popolare per l’Italia, accusandola di “voler togliere per legge l’ergastolo ai mafiosi stragisti dando il colpo mortale e definitivo alla lotta alla mafia”, il Magistrato di Sorveglianza di Padova Marcello Bortolato, membro della Giunta Esecutiva Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) e del Comitato Esecutivo del Coordinamento Nazionale dei Magistrati di Sorveglianza (Conams), sostiene la necessità che l’attuazione della delega di cui al Disegno di Legge C. 2798 del Governo, attualmente all’esame della Commissione Giustizia di Montecitorio, “dovrebbe rispondere all’esigenza di una completa revisione del sistema del “doppio binario” introdotto con il Decreto Legge n. 306/1992, con riferimento all’Art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, nell’ottica di una riaffermazione del principio di individualizzazione del trattamento la cui piena applicazione deve rimanere affidata, nel merito, alla Magistratura di Sorveglianza.”

Il Giudice di Sorveglianza padovano ha le idee molto chiare (pur se espresse a titolo personale), idee che convergono, esattamente, con la coraggiosa iniziativa legislativa assunta dalla Deputata democratica calabrese. Bortolato, infatti, afferma che “Pur senza l’abolizione del tutto dell’Art. 4 bis o.p. (nodo centrale di tutto il sistema delle preclusioni) la delega dovrebbe comportarne una rivisitazione secondo linee razionali che ne recuperino la coerenza e la compatibilità con il diritto penitenziario della rieducazione, ispirate a criteri di ragionevolezza ed uguaglianza (che ad esempio escluda dal catalogo dei reati alcune ipotesi, via via introdotte nel corso degli anni, che non hanno più alcuna ragione d’esservi).”

Inoltre, contrariamente alle “cazzate” del parlamentare pentastellato siciliano, secondo il Magistrato Bortolato, che conosce molto bene la questione, “L’eliminazione di automatismi e preclusioni impone altresì una sostanziale abrogazione dell’Art. 58 quater o.p. (divieto di concessione in caso di revoca di benefici precedentemente concessi o di commissione di alcuni reati), così come la definitiva abolizione della preclusione alla detenzione domiciliare per i condannati per i reati di cui all’Art. 4 bis o.p. (Art. 47 ter c. 1 bis o.p.), che già possono usufruire del ben più ampio beneficio dell’affidamento in prova.”

Quanto, invece, allo specifico caso della pena dell’ergastolo, il componente della Giunta Esecutiva Centrale dell’Anm e del Comitato Esecutivo del Conams, aggiunge che “In materia di ergastolo la delega dovrebbe essere esercitata con l’eliminazione delle ipotesi di c.d. ergastolo “ostativo”, anche attraverso l’affrancamento della liberazione condizionale dalle preclusioni penitenziarie nonché l’espunzione (anche per i condannati a pene temporanee) dall’Ordinamento Penitenziario della “collaborazione” quale requisito per l’accesso ai benefici (Art. 58 ter o.p.) imponendo viceversa quale unica condizione di ammissibilità, oltre al fattore temporale, la prova positiva della dissociazione.”

La posizione del Sen. Giarrusso, naturalmente, è diametralmente opposta poiché sostiene che “consentire l’accesso ai benefici degli sconti di pena era sino ad ora riservato ai mafiosi che collaboravano manifestando così il proprio ravvedimento. Con questa proposta di legge invece anche ai mafiosi irriducibili potranno accedere ai benefici degli sconti di pena e salvarsi dall’ergastolo. Sarebbe la fine della lotta alla mafia e la libertà per migliaia di pericolosi criminali. Noi non lo possiamo permettere”.

Quanto dichiarato dal Senatore Giarrusso che, tra l’altro è anche Avvocato, non corrisponde al vero dice Emilio Quintieri, esponente dei Radicali Italiani il quale collabora con l’On. Enza Bruno Bossio proprio per le questioni penitenziarie. Nessuno ha proposto “sconti di pena” per i “mafiosi irriducibili” che non si ravvedono così come nessuno ha proposto di liberare “migliaia di pericolosi criminali”.

Si tratta, invece, di una riforma “costituzionalmente orientata” dei presupposti per l’accesso ai benefici penitenziari ed alle altre misure alternative alla detenzione che prescinda in toto dal titolo di reato per il quale è intervenuta la condanna e dalla pretesa di comportamenti di collaborazione, ritenendo sufficientemente idonea la verifica – da parte del Gruppo di Osservazione e Trattamento dell’Istituto in cui il condannato si trova detenuto e della Magistratura di Sorveglianza competente – del percorso risocializzante compiuto dal condannato e la mancanza di elementi che facciano ritenere comprovati contatti con la criminalità organizzata. Il divieto di non concedere l’ammissione ai benefici ed alle misure extramurarie per i condannati per i reati di cui all’Art. 4 bis, solo per il fatto della loro mancata collaborazione con la Giustizia, appare di dubbia compatibilità con una concezione rieducativa della esecuzione penale, specie alla luce della copiosa giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che afferma che è in contrasto con la finalità rieducativa della pena ogni preclusione di natura assoluta all’accesso ai benefici penitenziari, che non lasci al Giudice di Sorveglianza la possibilità di verificare se le caratteristiche della condotta e la personalità del condannato giustifichino la progressione del trattamento rieducativo finalizzato al reinserimento sociale e, quindi, al suo ritorno in libertà al pari degli altri detenuti che hanno “collaborato” o la cui “collaborazione” sia stata ritenuta inesigibile o, comunque, irrilevante per essere stati integralmente accertati i fatti in giudizio.

Questa discriminazione, fondata sul titolo di reato e sulla pretesa di atteggiamenti collaborativi – prosegue l’esponente del Partito Radicale – appare fortemente in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione perché, se i soggetti richiedenti l’ammissione ai benefici ed alle misure alternative, sono ritenuti “meritevoli” perché non vi sono elementi che dimostrano in maniera certa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e perché comunque hanno fatto un certo percorso trattamentale durante l’espiazione della pena, non debbono trovare alcun altro “sbarramento preclusivo” all’ordinario regime di trattamento carcerario. L’On. Enza Bruno Bossio, proprio per tale motivo – conclude Emilio Quintieri – oltre alla nota proposta di legge, in questi giorni, depositerà in Commissione Giustizia alla Camera, delle proposte emendative al Disegno di Legge del Governo che ripropongono oltre alla revisione delle norme per l’accesso ai benefici ed alle misure alternative alla detenzione anche per i detenuti non collaboranti anche altre riforme della Legge Penitenziaria.

Alla Presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini… di Domenico Papalia

Ergastolo-ostativo

Questa lettera che Domenico Papalia -detenuto a Nuoro, e in pratica in galera fin dalla fine degli anni ’70- ha scritto al Presidente della Camera Laura Boldrini, sul tema dell’ergastolo ostativo è.. a mio parere.. in virtù dell’emersione di elementi persona nel corso di essa.. una delle più intense scritte riguardo a questa questione.

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ALLA PRESIDENTE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI

(On. Laura Boldrini)

c/o Camera dei Deputati

P.zza Montecitorio

00186 ROMA

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Signora Presidente Laura Boldrini,

Nel discorso del Suo insediamento a Presidente della Camera fece riferimento al degrado della situazione carceraria; a noi detenuti, che subiamo la detenzione in violazione delle regole costituzionali, giorno dopo giorno, dalle sue parole giunse un segno di speranza.

Vero è che qualche provvedimento vi è stato a seguito della Sentenza Torregiani della Corte dei Diritti Umani, ma sono stati provvedimenti palliativi  che non hanno risolto il problema ed ancora viviamo in uno stato di degrado e violazione dei diritti più elementari dei detenuti.

Il motivo per cui mi sono deciso a scriverLe questa lettera è il seguente:

In Italia vige la pena di morte silente (come definita daPapa Francesco) ed è “l’ergastolo ostativo”. Io sono uno di questi. In base all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario chi non collabora con la giustizia è escluso dai benefici penitenziari. Non discuto su questa forma di ricatto da parte dello Stato, anche se non mi pare morale che uno Stat0 insegni ai propri cittadini la delazione. Ricordo che quando è stata approvata questa legge, qualcuno in Francia ha cercato di imitarsi ed il Presidente di allora, Mitterand, è stato molto critico affermando che “Uno Stato di Diritto che spinge i propri cittadini alla delazione è uno Stato debole e immorale”.. tanto dovrebbe bastare.

Dicevo sopra.. sono uno dei condannati a morti con “l’ergastolo ostativo”. Sono detenuto ininterrottamente dal circa 39 anni (8/03/1977) più la liberazione anticipata arrivo a circa 51 anni di carcerazione espiata, come da scheda (allegato 1). Ho quasi 71 anni e sono realista.. con tutte le mie patologie e l’età avanzata credo di finire i miei giorni in carcere portando a termine la pena di morte alla faccia dello stato democratico italiano.

Non sto a ribadirLe la mia innocenza, perché le sentenze definitive si possono criticare ma si rispettano. Nella gioventù qualche errore l’ho fatto e pagato. Ma sto pagando un ergastolo che è frutto delle propalazioni di così detti pentiti che accusano per loro interessi o benefici.

Negli anni ’90 ho perso l’unico figlio, all’età di 19 anni, per un incidente di capodanno. In tale occasione ho autorizzato la donazione degli organi di mio figlio salvando e resa la vita normale a 7 persone. In questa occasione la curiosità dei giornalisti, per chi ha memoria, li ha portati a sentire il Sen. Imposimato che era stato il mio giudice. Ebbene, questi è andato più volte in molte trasmissioni televisive a sostenere che si era sbagliato e che sono innocente (ALLEGATO N.2). Non è successo nulla, anzi la Magistratura si è accanita ancora di più servendosi di falsi collaboratori di giustizia contro di me, nonostante abbia sempre dimostrato di non essere quello che altri volevano che io fossi. Chi mi ha conosciuto sa che ho rispetto per la vita umana, per tutti (ALLEGATO N. 3).

Comunque, le scrivo perché alla Camera giacciono molti disegni di legge per l’abolizione dell’ergastolo, ma dato il clima forcaiolo e giustizialista non credo che in Italia possa essere abolito l’ergastolo. 

Credo, invece, che possa essere modificato l’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, eliminando le preclusioni oggettive del reato e valutando nel merito se il detenuto ergastolano possa accedere ai benefici penitenziari o meno, cioè, se sono state soddisfatte le finalità della pena di cui all’art. 27 della Costituzione.

So che alla Camera sono stati depositati alcuni disegni di legge per eliminare l’ostatività dell’ergastolo, e cioè la modifica del 4 bis O.P. e sono: la proposta di legge n. 2798, presentata il 23 dicembre 2014 dai Ministri Orlando, Alfano e Paduan; altra proposta di legge n. 3091, presentata il 4 maggio dall’On. Enza Bruno Bossio ed altri deputati. Per questo mi rivolgo a Lei affinché voglio calendarizzare dette proposte di legge o, se ci sono altre, affinché in Italia venga eliminata questa anomalia della “pena di morte silente”.

La ringrazio anche a nome di centinaia di ergastolani ostativi ed anche per quelli che con questa speranza sono già deceduti in carcere per vecchiaia, malattie o che persa la speranza si sono suicidati.

Conoscendo la Sua sensibilità sono certo che non resterà impassibile.

La saluto cordialmente e che Dio la benedica.

Nuoro,  24/05/2015

 

 

 

 

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