Un tenero cuore di pietra… di Giovanni Leone
Pubblico oggi questo splendido testo scritto dal nostro Giovanni Leone, detenuto a Voghera.
Questo testo ci giunge grazie a Grazia Paletta.
Testi come questi sono piccoli gioielli, che fanno intravedere la luce anche quando intorno sembra di vedere solo cemento.
La foto che accompagna il post rappresenta proprio l’ “opera” di cui parla Giovanni nel suo testo.
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Tutti i giorni alle nove c’è l’apertura dei cancelli per andare al passeggio fino alle undici, e il pomeriggio dalle tredici alle quindici. Nel passeggio le pareti sono come i pannelli di cemento che gl’israeliani hanno costruito per confinare i palestinesi; anche il pavimento è di cemento, e il continuo andare e venire dei detenuti ha consumato le scarpe, spesso la salute della maggior parte di noi, e per finire il cemento.
Un giorno, nel compiere questo consueto rito, una pietra si è staccata dal pavimento, è stato il rumore della pietra che rotolava su se stessa ad attirare la mia attenzione. La pietra continuava a rotolare e io la seguivo con lo sguardo, era un sasso rozzo, eppure emanava un piccolo bagliore di luce. L’ho seguita fino al termine della sua corsa, l’ho raccolta e tenendola tra le mani l’ho guardata con rispetto, era per la maggior parte ricoperta di cemento, l’uomo l’aveva prelevata da madre natura, mischiata alla polvere a fini di lucro.
Mentre l’osservavo, sembrava mi chiedesse:
“ Non mi buttare, non sono tanto male, se tu mi ripulisci e mi lavori farai uscire il meglio di me; vedrai ti sorprenderò.”
Così, ho cominciato a strofinarla contro la parete. Gli altri detenuti continuavano a camminare, ma mi guardavano con furbesca curiosità. Io continuavo a strofinare, e dalla polvere che lentamente cadeva s’incominciava a intravedere una pietra di marmo di cava. Uno dei detenuti, sottovoce, ha detto agli altri:
“Che brutti scherzi fa, a volte, la galera!”
Un pensiero così profondo mi è scivolato addosso, anzi mi ha spronato a strofinare più forte, ho lavorato fino alle quindici quando ci hanno chiamati per rientrare in cella. Ma il mio progetto non era terminato, ho preso una bottiglia di plastica vuota, l’ho tagliata con le forbicine della Chicco, ho versato acqua, sale, aceto e detersivo e depositato la pietra in questo liquido. Ero ansioso di vedere il risultato, dovevo pazientare almeno fino al mattino successivo, ma il mio pensiero e il mio sguardo andavano continuamente in direzione della bottiglia. Finalmente mi sono addormentato e quella febbre d’ansia ha avuto tregua. Un raggio di sole bussa ai miei occhi, mi alzo, guardo il liquido della bottiglia che si è intorbidito, tolgo la pietra, è più morbida tra le mie mani, ma una sottile crosticina la ricopre ancora in alcuni punti, ricomincio a raschiare con la forbicina. Ecco! Il colore, che madre natura le ha donato, emerge, provo una gioia incontenibile nel guardarla.
Alle tredici aprono i cancelli per andare al passeggio, mi tolgo la maglia, il sole d’agosto brucia sulle spalle mentre riprendo a strofinare la pietra sulla parete di cemento, ma si è ammorbidita, addolcita e prende la forma che io desideravo. Ancora gli stessi detenuti del giorno precedente mi guardano e ripetono la stessa provocazione, ma non la raccolgo, non mi faccio distrarre, anzi nel mio cuore gioisco; dal mio lavoro sta uscendo qualcosa di puro, di buono, di prezioso. Il sole agostano imperla la mia fronte di goccioline di sudore che brillano per qualche istante, poi cadono a terra e subito si asciugano.
Io, invece, tra le mani ho il mio piccolo tesoro e ne sono fiero.
La saggezza, a lungo inseguita ed imparata negli anni, suggerisce che è importante credere in ciò che si fa, con la pazienza arriveranno i frutti maturi.
Come potete vedere, questo è il risultato.
(Che ne pensate? )