Le Urla dal Silenzio

La speranza non può essere uccisa per sempre.

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Con occhi da bambino… introduzione di Natalino Piras al libro “Cent’anni di memoria” di Mario Trudu

Memorias

Pubblico oggi l’introduzione che Natalino Piras ha scritto per l’ultimo libro di Mario Trudu -vero e proprio ergastolano ostativo storico (in carcere fin dal 1979- detenuto a Spoleto.

“Questo libro racconta con occhi da bambino – raccontare con gli occhi definisce lo stile di narrazione – l’infanzia contadina e pastorale di Mario Trudu, negli anni cinquanta del Novecento, ad Arzana, in Ogliastra, Sardegna orientale. Gli occhi da bambino sono quelli di un ergastolano, fine pena mai, capaci di immettere il remoto dentro una più vasta latitudine. Tale l’effetto che questa narrazione suscita nel lettore.

Il racconto procede per intersechi, per flashback, per catalogazioni di tempi, luoghi, spazi. Il paese dell’infanzia diventa così il proprio mondo, dove altri si riconoscono. Sono stato anch’io bambino, coevo di Mario Trudu. Come lui ho conosciuto la neve del ’56, anch’io ho visto “le persone anziane col sedere per terra”, ho partecipato anch’io alla costruzione di case e fortezze di ghiaccio. Come questo narratore anch’io so cosa significa l’incanto delle stagioni, il rosseggiare de sa mela de lidone, le bacche del corbezzolo, in autunno. Parlo sardo-italiano come Trudu pure se la variante arzanese dà più sul campidanese del mio bittese-logudorese. Come il bambino che è stato condivido a leit motiv della narrazione la memoria della prima guerra mondiale raccontata da (…) vecchi che furono giovani nelle trincee del Carso, nell’insensata strage, nei macelli. Thiu Pepe ‘Onanu di Arzana così come lo racconta Mario Trudu lo rivedo e lo risento come tziu Kirku di Bitti, la sua casa attaccata alla mia, nel vicinato di Buntanedda. Anche tziu Kirku era espressione della civiltà rustica, quella che Michelangelo Pira definisce, in Sardegna tra due lingue (1968), “cuncordia villica”: il villaggio come centro del proprio universo, ciascuna famiglia una “nassone”, una nazione. Le persone e i loro nomi- soprannomi, altro tema ricorrente nel narrare di Trudu, come successione di tutte le stirpi. Thiu e thia, nonna e nonno non sono appellativi generici. Allargano la composizione familiare del singolo raccontatore a tanti altri io narranti che riconoscono nella memoria dell’infanzia il proprio romanzo di formazione. Con thiu Pepe ‘Onanu tornano alla memoria del narratore altri nomi, altre ombre che ispessiscono: babbo e mamma, i fratelli, le sorelle, nonna Raffaela donna di ferro – a tratti sembra sa tia de filare di Montanaru – thiu Laisceddu, thiu Antiocu, il fantasma del bandito Stochino. E ancora e sempre il vicinato, i giochi, intessuti nel racconto ancor prima della catalogazione in appendice. Giochi e giocattoli di legno, di ferula. Pietre, pezzi di ferro. Giochi di abilità manuale, di vigoria fisica, di balentìa, paradisi per le bambine tracciati per terra. Anche tziu Kirku Panedda raccontava: nel mentre che fabbricava cavalli di ferula, intagliava bullinos e spade di legno per giochi guerreschi, le battaglie tra singoli e vicinati, oppure a bannitu-sordatu, banditi-carabinieri. Anch’io, anche noi eravamo così a Untana Pecus, Fontana delle pecore.
Quante infanzie contadine e pastorali in questo libro, quanta capacità di narrazione della storia dei poveri e dei dimenticati. Gli occhi da bambino di Mario Trudu scandagliano il cuore di tenebra dei paesi della montagna sarda, il centro abitato e la campagna come estensione delle nassones, anche i muri e i confini, lakanas, che stabilivano il proprio centro gravitazionale, l’universitas, l’appartenenza a quel mondo come paese portatile: uno lo tiene dentro per tutta la vita, per sempre.
Trudu ha una maniera tutta sua di raccontare, costruisce una grammatica tutta sua, lessico pregnante, lui che da bambino-adolescente non gli piaceva la scuola, “la fatica della scuola”, e insieme a coetanei e diversi compagni d’avventure, quanti Tom Sawyer, andava a rubare nelle vigne e negli orti, a devastare quanto non si poteva portare via. Disatinus, monellerie, canagliate, braverie interrotte dall’arrivo del padrone del campo e dell’orto. Non sempre funzionava il pedes meos sarvatemi, piedi miei salvatemi: la velocità nel darsi alla fuga.
Il racconto di Trudu procede con alternanza di minuscolo/maiuscolo, come naturalezza di scrittura, quella che apprende dalla civiltà del vicinato, dalla fontana, dalle varie case abitate: la botola, la balaustra, l’argilla rossa, i magazzini. Tornano come in sogno dentro le mura della prigione. Fanno ritornare Trudu il figlio premuroso che fu da bambino. E l’uomo maturo riflettente la sua condizione, le invocazioni a Dio, “se è vero che esisti”, sulla fregatura della vita. La memoria della solidarietà dei vicini e del vicinato dell’infanzia moralizza la durezza del tempo presente. Tornando alla scuola allora mal sopportata, il narratore avverte i ragazzi d’oggi, se fosse possibile che i ragazzi d’oggi sentano, a non seguire il suo esempio.
Poi il tempo del racconto si rifà bambino. Ricompaiono i personaggi, le situazioni, la prima volta della birra datagli da thiu Pepe ‘Onanu, le bollicine che bruciano il naso, l’arto artificiale di thiu Pepe indelebile segno lasciatogli dalla guerra. Sempre la guerra, la sua immanenza. Thiu Pepe o della guerra costituisce una pagina intensa per questa narrazione con occhi da bambino, visionaria, folle: i malati che in trincea si saziano del brodo della carne di mulo e per poco non muoiono di diarrea, la carne invece la mangiano i “sani”, carne che in altre occasioni avrebbero rifiutato anche i cani. Il racconto di thiu Pepe è popolato di cimiteri di guerra, nella neve, carne fresca degli uomini, fatta a spezzatino, sparsa per terra e sugli alberi. A un certo punto del racconto thiu Pepe dice che “stanotte qualcuno mi toccava le spalle”, chi sa quale commilitone oppure un nemico, chi sa se corpo presente o anima assente. “Per questo qualcuno stanotte mi toccava la spalla mormorando di pregare per l’Europa, mentre la Nuova Armada si presentava alla costa di Francia”. Sintomatico come il racconto di guerra di thiu Pepe coincida, in quel sentirsi toccare le spalle, con la visione che Vittorio Sereni, immenso poeta, prigioniero in Algeria, ha dello sbarco in Normandia, il giorno più lungo, il 6 giugno 1944. È la nitidezza della memoria bambina del narratore che stabilisce questi termini di paragone, i suoi “mostri vaghi”, fantasmi che si affollano nella mente nel passaggio all’età adulta, come serventi la funzionalità del racconto. Entrano altri narratori. Thiu Luisu Ferreli ricorda al bambino Trudu la guerra di Antonio, il gigante buono, ingenuo, per noi lettori/ascoltatori compartecipi, come il soldato Piero della canzone di De Andrè, come lui destinato al redibis non, non tornare vivo dagli assurdi campi di battaglia.
Stasimi del tempo di pace, nel racconto della guerra, sono altre visioni, “la bestia dentro”, violente scosse di una decina di minuti, cui è soggetto il nonno paterno di Mario Trudu, Antonio Angelo, incornato da ragazzo da un bue che stava aggiogando. Fa venire in mente Jeo no ‘ippo torero, Io non ero torero, magnifico canto di Antoninu Mura Ena che racconta di un ragazzo contadino, pitzinnu minore, “pungitore di buoi”, incornato da un bue, “all’entrata dell’orto”, nella montagna di Lula, sempre nel nostro cuore di tenebra. Nella visionarietà dell’agonia il ragazzo incornato dal bue vede comparirgli davanti un vero torero, come l’Ignacio Sanchez di Garcia Lorca, che lo porterà, tenendolo per mano, “a los toros celestes”.
Altri stasimi del racconto sono le paure della puntura contro il vaiolo, le abbiamo provate tutti, altre visioni. Come in sogno: in segreto sui monti, storie di balentie e banditi, racconti nel racconto, il misterioso amico latitante, doveva avere 70/80 anni, “solo uno condizionato dalla miseria in cui era nato” che a Trudu bambino tesse storie di vita vissuta con senso inconscio da realismo magico, nell’ovile di thiu Antiocu al tempo di Natale. L’uomo è una brutta bestia, sostiene il misterioso amico latitante, come morale del racconto dei due fratelli assassini assassinati, e di quell’altro dove si parla di ladri di maiali senza senso dell’etica che anche gli abigei avevano, dovevano avere, codice non scritto.
Poi torna, come circolarità del racconto, senso della poetica, il racconto di guerra di thiu Pepu ‘Onanu, il coraggio dei sardi e dei friulani, i nemici erano anche loro come noi carichi di miseria, di povertà estrema. “I racconti di thiu Pepe sono stati tanti. E tutti facevano tremare il cuore di quel bambino che ero io”. Sognatore nonostante tutto, capace di mettere a paragone il Maccu Picchu con is fortes per fare arrivare l’acqua negli orti costruiti da thiu Luisu Laisceddu nella campagna arzanese.
Colomberis, i buchi nei muri, dietro le porte, come neri occhi di janas. Tempu paldutu diceva Don Baignu Pes, poeta eccelso nella mite Gallura del Settecento-Ottocento. Tempo perduto e tempo ritrovato nella circolarità della memoria. Il bambino Trudu ricorda Milianu bambino, io narrante di Sos sinnos, romanzo scritto in bittese da Michelangelo Pira, pubblicato postumo. Il racconto di Trudu è rivelatore di umanità come humanitas, come di chi sa cosa è l’uomo, nel bene e nel male. Tutto il male viene abolito dalla memoria dell’infanzia che nel tempo dell’uomo è il tempo bambino.
Tornerà il tempo delle arnie di sughero, il tempo del miele. Meglio, sostiene Mario Trudu, che ci siano degli alberi rigogliosi invece che palazzi in cemento armato.

Natalino Piras

Clessidra senza sabbia… dagli ergastolani ostativi di Opera

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“Clessidra senza sabbia” è una riflessione sul fine pena mai nata da un gruppo di ergastolani ostativi del carcere di Opera. Una riflessione che è anche una proposta per uscire dall’annientamento del carcere a vita. Questa riflessione, pubblicata in formato digitale da Stampa Alternativa, è scaricabile al seguente indirizzo:

Recensione di un ergastolano al libro “Fine pena: ora” di Elvio Fassone

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Pubblico oggi la recensione che il nostro Carmelo ha scritto in merito al libro “Fine pena: ora” di Flavio Tassone, ex magistrato e componente del Consiglio Superiore della Magistratura.

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Mi arrivarono calci e pugni sulla testa e sulla schiena. Mi rannicchiai a terra ridendo e urlando.Ero un buon incassatore perché fin da bambino la mia famiglia mi aveva abituato e allenato a prenderle in silenzio. 

(Diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com)

I libri sono stati sempre la mia luce in tutti questi anni di buio e mi hanno anche aiutato a continuare a lottare e a stare al mondo, perché, come scrive Elvio Fassone, ex magistrato e componente del Consiglio della Magistratura e Senatore della Repubblica, nel suo libro “Fine pena: ora” (Sellerio Editore) “Certe volte una pagina, una frase, una parola smuove delle pietre pesanti sul nostro scantinato”.

Sono stato subito preso dalla lettura di questo libro perché, a parte l’argomento, conosco molto bene il protagonista del racconto dell’autore.

Con “Salvatore” (nome di fantasia con cui preferisce essere chiamato il mio compagno ergastolano in questo libro) ci eravamo incontrati nei primi anni novanta, quando tutte e due eravamo sottoposti al regime del carcere duro a Cuneo. Io ero stato appoggiato in quell’istituto provvisoriamente per motivi di giustizia. Venivo dal carcere dell’Asinara. Avevo appena subito uno dei tanti pestaggi che a quel tempo i detenuti imputati per criminalità organizzata dovevano affrontare da chi li voleva così convincere a diventare collaboratori di giustizia. Per l’appunto la storia carceraria ci dice che dal carcere dell’Asinara e da quello di Pianosa sia uscito il gruppo più consistente di collaboratori di giustizia di quel periodo.

Salvatore mi aveva dato subito la sua solidarietà, come si usa fra i paesani, e diventammo subito amici. Si era confidato con me di questa strana corrispondenza che aveva con un magistrato. E adesso, sinceramente, sono rimasto sorpreso di leggerla in un libro. Mi ha molto colpito la sensibilità e l’umanità dello scrittore, che ha espresso concetti profondi come “Non sono senza legge, né senza morale: hanno un codice più rigoroso del nostro, una morale centrata su un onore severo e contorto, una capacità di soffrire che sarebbe bello definire stoico se non fosse folle. (…)

Anche nell’arido mondo del diritto, accadono i miracoli. (…) Se è vero che anche la pena può dare frutto, ebbene se il frutto è davvero maturo, è tempo di coglierlo altrimenti marcisce. (…)

Sollecitare una decisione umanitaria nei confronti di quei detenuti che sono in carcere da molti anni, sono profondamente cambiati, e non trovano chi constati questo cambiamento e li restituisca alla vita (…). Manca una letteratura in senso proprio che racconti, con la capacità evocativa che è sua, il vissuto quotidiano della detenzione.

     Anch’io da quando ho letto questa frase scritta tra le mura di un lager nazista “Sono stato qui e nessuno lo saprà mai”, da un quarto di secolo, non faccio altro che scrivere e rompere le scatole a mezzo mondo per far conoscere l’inferno che i “buoni” hanno creato e mal governano. Anch’io sono fortemente convinto che in Italia la giustizia e le prigioni siano quelle che sono anche perché, a differenza di altri Paesi, nel nostro manca una letteratura sociale carceraria. E, come sappiamo, la letteratura è l’anima di un Paese.

Io nel mio piccolo mi sto sforzando di crearne una perché ho tanti manoscritti sotto la mia branda, prigionieri insieme a me. E spero un giorno di liberare almeno loro, ma non è facile, soprattutto per un ergastolano, pubblicare in Italia. E mi ritengo già fortunato che sono riuscito a pubblicare qualcosa. Purtroppo sono pochi gli editori che si sporcano le mani pubblicando i pensieri degli avanzi di galera come me. La stragrande maggioranza delle case editrici preferisce pubblicare le ricette di cucina, per guadagnare tanti soldi ed evitare critiche e guai.

Per questo voglio fare i complimenti anche a “Sellerio Editore” per avere avuto il coraggio di pubblicare “Fine pena: ora”. D’altronde, cosa rende umana una persona? La speranza. Non c’è però nulla da sperare in una pena che finisce nell’anno 9.999.

Un sorriso fra le sbarre.

 

Carmelo Musumeci
 
Padova, Marzo 2016
 

 

Da “Nonostante i cacciatori di uomini” di Giovanni Farina

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Pubblico oggi un altro brano tratto dal bellissimo libro “Nonostante i cacciatori di uomini” di Giovanni Farina, detenuto a Catanzaro.

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E’ facile essere amati, e dopo un attimo essere odiati.

L’uomo è più plasmabile della bestia.

Basta una sola parola d’un suo simile per farlo camminare nell’illusione. Ormai mi avevano chiuso dal lavoro.

E’ molto raro incontrarsi nella gioia, l’uomo la felicità la tiene nascosta, ha paura che gli venga rubata. Ogni grido di dolore ha pronto il suo carnefice  che scaglia la pietra e nasconde la mano.

L’odore del sangue attira gli avvoltoi, gli spazzini degli esseri senza vita che non si possono difendere.

L’abbattimento del vento ci fa sentire forti, per il momento il vincitore si sente immortale. Non ci rendiamo conto che cancellando dal sentiero della vita i nostri simili, cancelliamo dalla terra le nostre origini, uccidiamo i nostri padri.

Recensione di un ergastolano ateo a “Il nome di Dio è misericordia”

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Pubblico la recensione fatta dal nostro Carmelo Musumeci del libro “Il nome di Dio è misericordia”, libro interista di Andrea Tornielli a Papa Francesco.

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Carmelo, non ti preoccupare se non credi in Dio perché Lui crede in te. (Suor Grazia)

Suor Marie Agnes mi ha mandato il libro-intervista di Andrea Tornielli a Papa Francesco dal titolo: “Il nome di Dio è misericordia” (Piemme) .
Leggo di tutto, ma di solito i libri religiosi li lascio sempre per ultimi. Questa volta, sia perché Papa Francesco mi è simpatico, sia perché ha abolito la pena dell’ergastolo (definendola “Pena di Morte Mascherata”) nella Città del Vaticano, ho letto subito questo bel libro.
Le risposte di Papa Francesco ad Andrea Tornielli riportate sul libro ti illuminano il cuore. Eccone alcune: “Tu puoi rinnegare Dio, tu puoi peccare contro lui, ma Dio non può rinnegare se stesso, Lui rimane fedele. (…) Chi non crede in Dio, non è vero che non crede in niente, perché comincia a credere a tutto. (…) L’amore di Dio c’è anche per chi non è nella disposizione di ricevere il Sacramento. (…) Senza la misericordia, senza il perdono di Dio, il mondo non esisterebbe. (…) Mi spiace di non essere pentito. Quel dispiacere è il piccolo spiraglio che permette al prete misericordioso di dare l’assoluzione. (…) Nel dubbio si decida sempre in favore della persona che è sottoposta a giudizio. (…) Anche san Pietro e san Paolo erano stati carcerati. Ogni volta che varco la porta di un carcere mi viene sempre questo pensiero: perché loro e non io? Io dovrei essere qui, meriterei di essere qui. Le loro cadute avrebbero potuto essere le mie, non mi sento migliore di chi ho di fronte. (…) Non c’è giustizia senza perdono.

Vi confido che fin da bambino in collegio non ho mai avuto simpatia per i preti e le suore. Mi ricordo che a quel tempo la cosa che odiavo di più era che tutte le sante mattine mi portavano di forza in chiesa per ascoltare la messa. Io non avevo mai avuto un’educazione religiosa e non capivo perché dovevo stare in ginocchio davanti a un Signore sconosciuto messo in croce, anche perché a quel tempo pensavo di non aver nulla da farmi perdonare, a parte forse la colpa di essere nato.
E così ho iniziato molto presto a litigare con Dio. Qualcuno in seguito mi ha detto che anch’io alla mia maniera sono credente, perché credo di non credere.
Da grande le cose sono cambiate soprattutto da quando nel 2007 ho incontrato nel carcere di Spoleto Don Oreste Benzi (Fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII) che incredibilmente appoggiò il primo sciopero della fame collettivo degli ergastolani, per l’abolizione della “Pena di Morte Viva”. Subito dopo conobbi Suor Grazia, monaca di clausura del Monastero di Pratovecchio, che è diventata un po’ la mia musa religiosa. E tempo fa la sua Priora, dopo le sue ripetute insistenze, le ha concesso di uscire dal monastero per venirmi a trovare. L’incontro con Suor Grazia è stato bellissimo. Lei è graziosa, delicata e fragile. Tutta cuore e anima. Mi è sembrata un uccellino che ha preso il mio cuore come suo nido per tutta la durata dell’incontro. Bella, solare e buona. Piena d’amore di Dio. Solo le persone come lei mi fanno venire il dubbio che forse Dio esiste. Mi ha raccontato che c’era un ladro che andava a rubare l’elemosina al loro convento. Loro invece di andare a chiamare i carabinieri gli hanno lasciato un bigliettino con scritto: “Se hai bisogno vieni da noi”. E i furti sono finiti.

Continuo però ancora a credere di non credere, ma cerco di comportarmi come se Dio mi guardasse. Penso che credere in Lui sia la soluzione più a portata di mano, ma credo pure che sia anche la più difficile. Poi penso che in tutti i casi di Dio non si può sapere nulla, anche perché lui è un anarchico e ti lascia libero di credere o di non credere. Sotto un certo punto di vista assomiglia un po’ a Papa Francesco, ma forse è meglio affermare che sia lui ad assomigliare a Dio. E la lettura di questo libro ti avvicina un po’ a tutti e due.

Carmelo Musumeci
Carcere di Padova, febbraio 2016

Mio padre… da “Nonostante i cacciatori di uomini”.. di Giovanni Farina

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Pubblico oggi un altro brano tratto dal bellissimo “Nonostante i cacciatori di uomini” di Giovanni Farina.

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Un giorno viene mia madre a colloquio. Solo dopo mezz’ora circa di conversazione mi fa: “Sai, tuo padre l’abbiamo sotterrato nel cimitero di Pari, ormai abitiamo in quel paese”. Alla notizia improvvisa, stravolgente, della morte del babbo, peraltro comunicata in quella fortuita maniera, per qualche minuto reso in silenzio. Mi si ferma il pensiero, non sento più il mio cuore battere. Credo di non avere capito quanto ha appena detto la mamma. Dopo un po’ domando  quando è morto e risponde: “Quindici giorni fa”. La guardo quai assente. 

Prima di pronunciare parole domando: “Ma come! Mio padre è morto da quindici giorni e non mi viene fatto sapere della sua morte neppure con un telegramma?”. Chiedo il perché  di tutti quei giorni di silenzio. “Come? Non te l’hanno dato il telegramma? Abbiamo chiesto al giudice di mandarti al funerale, volevamo che tu ci fossi, almeno per vedere l’ultima volta tuo padre. Almeno il telegramma credevo che l’avessero consegnato”. Il telegramma me l’hanno dato la sera, dopo tornato dal colloquio con i miei familiari. Per i giudici si vede che non era mio diritto sapere che mio padre era morto. Il babbo morì che aveva 76 anni, eppure era nel pieno della vita. Era più giovane della maggior parte degliuomii dell’età di cinquant’anni, più roseo, gli occhi lucidi, la pelle soffice e chiara; era asciutto, di bell’aspetto. Aveva avuto la sua gioventù molto tardi nella vita. Era diventato giovane di colpo, come un melo che sbadatamente fiorisce in ottobre. I suoi genitori erano gente rispettabile e religiosa. Era nato in una piccola città chiamata Orune. Al tempo della sua infanzia, la piccola città della Sardegna non aveva teatri, cinematografi, automobili. Tutto si concentrava attorno alla chiesa. La domenica vi era messa, le riunioni in parrocchia; e durante l’anno le feste tradizionali, quando tutti si sfrenavano in balli e canti tribali, corse di cavalli, manifestazioni culturali tramandate dai tempi più lontani, più antichi. Orune è un paese esposto a tuttii venti, domina le valli che lo circondano. Mio padre restò sempre figlio di quel libero vento.

Ergastolani senza scampo, libro, quotidianità, l’ora dei limoni neri… di Francesca De Carolis

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Pubblico anche sul nostro blog il pezzo di Francesca De Carolis dove, la nostra grande amica, parla del recente libro scritto da Carmelo Musumeci insieme al professore Andrea Pugiotto, “Ergastolani senza scampo”.

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“Lo spirito di vendetta non ha copertura costituzionale”. Appuntando sul taccuino questa frase, dalla prefazione di Gaetano Silvestri (che è stato presidente della Corte Costituzionale) a un libro da tenere d’occhio, in questi tempi di smarrimenti… in cui prima vittima è la nostra coscienza critica… “Gli ergastolani senza scampo”, il titolo. Carmelo Musumeci e Andrea Pugiotto gli autori. Ergastolano il primo, docente di Diritto costituzionale il secondo.
E siccome randagiando lungo sentieri delle nostre carceri quotidiane ho incontrato sia l’uno che l’altro, ero davvero curiosa di questo intreccio di linguaggi, diversi e pure legati da una simile passione del sentire e del fare…
“Forse continuo a respirare perché non ho il coraggio di morire”. Così testimonia Musumeci (detenuto dal 1991, che in carcere si è laureato, e da anni anima una campagna contro l’ergastolo) attraverso pagine di un diario, che è a tratti battibecco con il proprio cuore.

Con quella parte viva di sé, che rimane la sola con cui liberamente parlare e confrontarsi, in un luogo che tutto intorno vuole morto. Dove ci si chiede “a che serve essere vivo se non puoi più esistere?”. Dove la speranza “è un veleno che mi sta intossicando da un ventennio”. Sono, quelle di Musumeci, le pagine di un diario che scandiscono il tempo della giornata, dal mattino che “ho sempre paura di svegliarmi”, alla notte che “finalmente il filo dei pensieri si spezza”.
Raccontando la vita che non c’è, smentiscono la bugia, che con una certa malafede viene messa in giro, che l’ergastolo non lo sconta nessuno. In questo nostro paese dove degli ergastolani la stragrande maggioranza è fatta di “ostativi”, cioè persone escluse da benefici di legge e quindi condannate a una pena perpetua e immutabile cui è possibile sottrarsi solo “collaborando utilmente” con la giustizia, altrimenti dal carcere destinati a uscire solo da morti. E più spesso di quanto non si dica in giro, dentro quelle mura suona “l’ora dei limoni neri”…

A spiegare i tanti profili di illegittimità costituzionale dell’ergastolo, con l’attenta cura che gli è propria, meticolosa e lieve a un tempo, Andrea Pugiotto. “Caino va certamente punito, ma da uno Stato di diritto che rispetti la propria legalità costituzionale”. Cosa, questa dello Stato che rispetti la propria legalità costituzionale, sulla quale si avanzano tanti e seri dubbi.
L’analisi è puntuale, stringente, ricchissima di argomentazioni, una vivisezione, quasi, di norme e giurisprudenza. Che invito a leggere, anche se profani (come d’altra parte anch’io) in questioni di diritto.

Magari avete letto a suo tempo “comma 22” (ricordate? “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”…), non vi sarà difficile seguire sofismi e bizantinismi prodotti anche da illustri Corti (Cassazione, Costituzionale) con le quali Pugiotto entra in serrata dialettica, che qui vengono svelati, e che sfiorano il paradosso.
Ma che permettono che sia ancora in vita una pena come quella dell’ergastolo, che è inumana, degradante, una morte mascherata, contraria ai principi fondamentali della Costituzione. Sacrificati all’improbabile idea di sicurezza che ci siamo fatti.

Improbabile come la data che è sul certificato di un ergastolano. Scadenza pena definitiva: 31/12/9999. Sì, avete letto bene. Un traguardo temporale che, commenta Pugiotto, “ha un che di metafisico”, “prodotto dell’asettico linguaggio dell’informatica penitenziaria”. Che un computer, che l’ergastolo non lo può capire, una data deve pur metterla…
La pena di morte nascosta, dunque. Che parla di questi “cattivissimi per sempre” ma, scrive Pugiotto, parla soprattutto “di noi e di cosa siamo diventati”. Se tutto questo ci è indifferente o addirittura vogliamo.

E arriva, come un pugno in faccia, l’appendice. Dove Davide Galliani, docente dell’Università di Milano, narra dei risultati di un progetto di ricerca che molto racconta delle condizioni materiali degli ergastolani. Che è cosa che sempre sconvolge, perché anche se molto già sai, c’è sempre qualcosa che mai riusciresti a immaginare. A cominciare dalle tante malattie del corpo e della mente che sono le condizioni stesse del carcere a determinare.
Cosa è se non tortura del corpo e della mente tenere in cella una persona con il morbo di Buerger, cui è già stato necessario amputare un piede, depressa e con continui attacchi di panico. O dopo una già lunga detenzione, un uomo con il morbo di Parkinson. O persona di 83 anni, dal ‘93 ininterrottamente in regime di carcere duro.

Non possiamo immaginare… E quale motivo se non un meccanismo di morte, ancor più inumano perché affidato alla meccanica indifferenza del sistema.
Purtroppo le parole “criminalità”, “mafia”, la parola “legalità”, persino, a volte, sembrano diventate in questo nostro paese la chiave per dare il via libera all’annullamento dei diritti fondamentali dell’individuo. Che è cosa che non produce uomini migliori (né dentro né fuori) e sta corrodendo la nostra democrazia.

Tornando a una pagina del diario di Musumeci… dove ricorda di avere letto che una direttrice di un carcere indiano criticava le nostre moderne prigioni perché prive di alberi. E si rende conto che è vero, che in tutte le carceri dove è stato non ha mai trovato un albero in un cortile e si chiede chissà perché l’Assassino dei sogni (come definisce il carcere) ha così paura degli alberi. Si risponde: “Forse perché in loro c’è vita. E lui odia qualsiasi cosa viva”.
Leggete “Gli ergastolani senza scampo” (collana diritto penitenziario e costituzione- Editoriale Scientifica). E poi, se proprio non ci importa di quanto sappiamo essere non umani, di quanta confusione facciamo fra vendetta e giustizia, proviamo almeno a rispondere onestamente a una domanda. È questo che ci fa sentire “più sicuri”?

Dipingere la morte, dipingere la vita… di Francesca De Carolis

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Questo pezzo della nostra Francesca De Carolis non parla esattamente di carcere.

Ma è quel genere di brani che sono in profonda sintonia con l’anima di questo Blog ed inoltre è scritto magnificamente.

Per cui lo condividiamo, anche su questo blog, con grande piacere.

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Giorno della memoria… torno, permettete, sullo sterminio degli altri, di quelli di cui raramente si parla. Il genocidio di sinti e rom, Porrajmos, “grande devastazione”, in lingua romanì.
C’è un libro nel quale inciampai tempo fa. Un libro che trasmette tremore fin dal titolo: “Forse sogno di vivere”. Ma è il sottotitolo che, così, semplice e didascalico, apre le porte sullo strazio della storia: una bambina rom a Bergen-Belsen. Un libro da avere fra le mani. E’ stato pubblicato una decina d’anni fa in Italia da Giuntina nella collana Schulim Vogelmann.
E’ rievocata, la bambina che è stata, da Ceija Stojka, che era nata del 1933 in un paesino della Stiria, che fu deportata a Bergen-Belsen con la madre quando aveva undici anni, e che cinquant’anni dopo racconta, ritrovando lo sguardo e le parole della bambina di allora. Le parole dello stupore di fronte a una quotidianità fatta di violenze, di fame, di tormento, di immagini di morte che si fa fatica a immaginare. Stupore rimasto intatto, più di mezzo secolo dopo, perché: “mi volto, dice, e sono ancora lì”. (…)
Non c’è traccia di odio nel racconto. Semplicemente un narrare lucido e ostinato, per chiedersi e chiedere, ancora: come è stato possibile? E testimoniare la volontà di vita. Sono pagine di una cantatrice, che come in un lamento senza lamento culla il ricordo di quei giorni, di lei, della sua mamma…
Ascoltate: “La cosa peggiore per noi era l’arrivo dei treni alle tre di notte. Senti quello stridore di freni e senti come camminano gli esseri umani, come vengono incalzati dai kapò e dai soldati coi cani. I cani guaiscono, il rumore sale fino al cielo. Poi senti come i loro vestiti strisciano sul terreno, come si preparano per entrare nel crematorio. Poi, per un po’, non senti più niente. Poi c’è solo silenzio, capisci? E poi, all’improvviso, soffia un alito di vento e l’odore penetra nella baracca. E mia madre ha sempre detto: – Tra gli ebrei ci sono sicuramente pure rom. Dove saranno le tue nonne?”
Ancora: “Spesso la mamma mi ha detto:- Se vuoi morire Ceija è semplicissimo. Ci sdraiamo, siamo così stanche che ci addormenteremo facilmente e dormendo ce ne andremo. Non abbiamo bisogno d’altro, bambina mia. Ma poi non vedrai più né Mongo, né Karli, non la Mizzi né Kathi, che forse però saranno ancora vivi! Forse!- In quel momento è nata la tua forza di volontà e hai guardato dove fosse un po’ d’ortica, dove sul mio albero fosse spuntata una foglia”.
Un po’ d’ortica, qualche foglia da mangiare… Ritrovando dentro di sé, ho immaginato, la memoria di quando gli zingari avevano le ali, e per vivere non dovevano mendicare e rubacchiare. Di quando volavano con gli altri uccelli, e quel che mangiavano gli uccelli mangiavano anche loro. Questo oggi non lo ricorda più nessuno, ma è storia di cui sono certa. Ne ho letto in un libro di quel fantastico viaggiatore nella storia di popoli che fu Charles Leland, “Magia degli zingari”, di cui pure vi leggerei qualche pagina, ma che ora non ho perché l’ho regalato a Francesco, un giovane rom che in carcere, nelle letture, sta cercando le tracce della sua storia.
Dunque, una bambina a Bergen-Belsen. In attesa che in qualche modo la mamma cuocia l’unica patata, Ceija va a fare un giro… “ecco il mucchio dei morti, la montagna, e ci passeggio attorno come un topolino. Sto in mezzo ai cadaveri, guardandone uno capovolto, oppure uno girato come si deve. Semplicemente come si deve”. Racconta, cinquant’anni dopo, Ceija Stoica. Ancora stupita, sembra, di essere viva. Dopo tanto convivere con la morte.
Ceija Stojka è morta tra il 28 e il 29 gennaio di tre anni fa, a 79 anni. Mi colpì moltissimo quel suo racconto, e la forza del suo narrare, che a tratti ho letto e riletto. Cercando ancora tracce di lei, che è poi vissuta a Vienna facendo la venditrice ambulante, e che è stata pittrice e musicista, e ha scritto poesie e racconti in lingua rom e attraverso le sue opere ancora ha testimoniato quella terribile esperienza, lei che in un’intervista aveva detto “In ogni momento della mia vita ricordo Auschwitz”. Ammonendo: Auschwitz non è morto, ha detto, sta solo dormendo. E i suoi dipinti sono ricordo del tempo della morte, che è cosa che sempre rimane nell’anima.
Quadri, che sono retate a spezzare la vita libera fra i boschi, che sono treni di morte in viaggio verso un orizzonte bruciato di fuoco, che sono l’ombra di sua madre fra ghiaccio e filo spinato, e corpi e capanne e camini di fumo…
Ma sono anche, i suoi dipinti, colori vibranti vita. Perché Ceija è sempre rimasta la bambina che “mamma, quando uscirò di qui facciamoci un bel vestito! Un vestito arcobaleno!”. “Ah!, vuoi dire un vestito come quello che ti ha fatto tuo padre col tessuto di quel vecchio ombrello”. “Certo,- ho detto- voglio averne uno proprio uguale”.
Pensando allo sterminio dei rom. Di cui troppo poco vogliamo sapere. Pagina della storia di un popolo che, ha ricordato Moni Ovaidia quando l’ha proposto per il Nobel per la pace, non ha mai fatto la guerra a nessun altro popolo.

Volume “Ergastolani senza scampo” di C. Musumeci e A. Pugiotto

           penitenziario

Nel discorso pubblico si ripete, monotona, la convinzione che in Italia l’ergastolo non esiste e che i condannati al carcere a vita, prima o poi, escono tutti di galera. La realtà rivela, invece, un dato esattamente capovolto: attualmente sono 1.619 i condannati alla pena perpetua e, di questi, 1.174 (pari al 72,5% del totale) sono ergastolani ostativi, ai sensi dell’art. 4-bisdell’ordinamento penitenziario.

            Sconosciuto ai più, l’ergastolo ostativo è una pena destinata a coincidere, nella sua durata, con l’intera vita del condannato e, nelle sue modalità, con una detenzione integralmente intramuraria. Una pena perpetua e immutabile cui è possibile sottrarsi solo collaborando utilmente con la giustizia.

            Il presente volume, nella sua Parte I (scritta da Carmelo Musumeci) narra con autenticità la giornata sempre uguale di un ergastolano senza scampo, scandita nei suoi ritmi esteriori e interiori – alba, mattino, pomeriggio, sera, notte – costringendo il lettore a immaginare l’inimmaginabile. Nella sua Parte II (scritta da Andrea Pugiotto), ripercorre criticamente la trama normativa dell’ergastolo ostativo, argomentandone i tanti profili di illegittimità costituzionale e convenzionale, in serrata dialettica con la giurisprudenza delle Corti, costituzionale e di Cassazione, ad oggi persuase del contrario.

            Il volume è impreziosito dall’eloquente Prefazione del Presidente Emerito della Corte costituzionale Gaetano Silvestri, che rilegge il regime dell’art. 4-bis o.p. alla luce del principio supremo di dignità della persona. L’Appendice (curata da Davide Galliani) illustra i risultati di un’inedita ricerca empirica condotta tra circa 250 ergastolani, finalizzata a rilevare le materiali condizioni di salute, fisica e psichica, derivanti da un regime detentivo perpetuo, esclusivamente intramurario, frequentemente declinato nelle forme del c.d. carcere duro (ex art. 41-bis o.p.).

            Il volume (quarto della collana Diritto penitenziario e Costituzione, nata dall’esperienza dell’omonimo Master promosso da Dipartimento di Giurisprudenza dell’ateneo di Roma Tre) è il risultato del primo progetto di ricerca UE dedicato al regime dell’ergastolo nel contesto europeo (www.lifeimprisonment.eu)

Da “Nonostante il cacciatore di uomini”… di Giovanni Farina

farina

Pubblico altri brani tratti dal bellissimo libro di Giovanni Farina -detenuto a Catanzaro- “Nonostante i cacciatori di uomini”.

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Ricordo una mattina d’inverno

Mi dovevo alzare dal letto perché la luce del giorno, che filtrava dalla fessura di una tapparella della finestra, mi diceva che un nuovo dì era arrivato. Ero sdraiato nel mio letto e ascoltavo il silenzio di quel giorno ancora inesplorato dai miei occhi. Da dentro la stanza chiusa ascoltavo i rumori della campagna che non sentivo. Anche gli uccelli sembrava si erano dimenticati di svegliarmi, non sentivo il loro canto. Le capre che erano nella stanza non richiamavano i loro figli come era loro abitudine biologica. A quell’ora nevicava nel massimo silenzio, non c’erano rallentamenti nella foschia dei fiocchi di neve.

Vedo fuori e devo guardare il cielo sempre di traverso, dove scorgo l’orizzonte. Il mio cuore ha dimenticato le parole che colorano il cielo. Solo i miei occhi, quando guardano l’orizzonte, sanno dire una preghiera. Tanti anni sono passati, eppure io vedo ancora oggi il mio sguardo che domanda al cielo dov’è quella finestra che cercavo, in mezzo alle stelle del cielo azzurro di quella notte. Quando ancora ero un giovane, dai sogni senza ombre.

Limbara, questo era il nome della capra che tutti gli anni faceva tre capretti. Il terzo capretto era accovacciato sulle gambe vicino al sasso, sembrava che dormisse, era morto. Ogni volta che mi moriva un animale, anche alla nascita, mi dava un senso di colpa, mi faceva soffrire. Pensavo che la sua morte fosse colpa mia. A pare che in una nuova nascita c’era il lavoro di un anno, mi dava molta tristezza perdere quello che mi era nato dai miei animali. Le mie capre non erano selvatiche, anche se erano in branco. Erano semibrade, conoscevano il padrone, e dagli estranei non si facevano avvicinare. Col tempo tutti i viottoli fatti dai miei animali sono diventati dai veri tracciati topografici, registrati dai boy scout. Dei veri itinerari per gli escursionisti e i cacciatori, per gli esploratori che salivano in quella montagna.

L’uomo è sempre pronto a essere giudice, giustiziere di altri uomini. Sin quando ci saranno giudici e giudicai, le parti non coincideranno mai. Ci sarà sempre la disuguaglianza, perché siamo noi che non siamo uguali. Il mio pensiero resta scritto nel mio respiro ogni giorno, da quando la luce dell’alba dà gioia ai miei occhi.

Le mie finestre sono esposte da anni al vento di tramontana, per questo quasi sempre le tengo chiuse. Chissà quando potrò tenerle aperte, e respirare il vento libero della vita, quando non sentirò più questo vento ingiusto. 

Nella mia vita non mi sono mai arreso, perché ho incontrato anche degli uomini che mi hanno insegnato la fiducia di crescere. Nel mio profondo silenzio, l’anima mia continua a respirare paziente. E per questo non voglio deluderli.

Non sono solo io una testimonianza d’uomo che è sopravvissuta alle catene. Altri uomini prima di me sono sopravvissuti alle catene. E hanno tracciano la loro storia con la vita.

Sono abituato a prendere quello che la vita caritatevole mi ha dato. Non ho mai desiderato quello che non avevo. Sarà per questo che sono restato sempre la stessa persona. Desiderare quello che non necessitiamo, e come tute le cose in più, diventano superificiali alla nostra esistenza.

Non si può desiderare ogni raggio di luce che vediamo. La luce perfetta tutta per noi non ci appartiene, perché nella nostra natura ci appartiene l’imperfezione.

Molte volte l’animo sorridente mi ha dato la definizione di chi si vuole prendere gioco di quello che gli sta davanti.

Il sorriso dell’uomo è parte di me stesso, e sono contento di sorridere, di essere me stesso. Non è vero che il sorriso abbonda sulla bocca degli sciocchi.

Ho chiuso gli occhi e sento gli uccelli che cantano.

Stanno cercando per me la loro canzone.

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