Le Urla dal Silenzio

La speranza non può essere uccisa per sempre.

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The devil… di Giovanni Arcuri

illusion

Coloro che in questi anni hanno letto questo Blog, conoscono Giovanni Arcuri.

Attualmente è in semilibertà nel carcere di Rebibbia. Noi l’abbiamo conosciuto quando era in detenzione “piena”.

Ha scritto tre libri (di cui due pubblicati), è prossimo alla laurea in legge,

Negli anni è diventato (anche) uno straordinario ricercatore dei sistemi di controllo (vedi ad esempio i suoi pezzi sul governo segreto del mondo.. https://urladalsilenzio.wordpress.com/2012/04/03/il-governo-segreto-di-giovanni-arcuri-prima-parte/ e https://urladalsilenzio.wordpress.com/2012/04/15/il-governo-segreto-di-giovanni-arcuri-seconda-parte/), delle tecniche di manipolazione, delle bestiali e raffinatissime alchimie della finanza predatoria.

La sua esperienza e i suoi studi lo hanno portato a conoscere realtà che gran parte delle persone non conosce o conosce solo per vaghi e superficiali riferimenti.

Nel testo che pubblico oggi si parla di paradisi fiscali, trust, sistemi offshore.. cose che.. gran parte della nostra classe dirigente in gran parte ignora.

Davvero a volte sembra che ci sia una realtà “visibile” e un mondo “invisibile”.

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THE DEVIL
Pochi giorni fa sulla terrazza dell’hotel Eden con una vista spettacolare su Roma ho conosciuto “The Devil”(il demonio). Ancora oggi non so quale sia veramente il suo nome. Era con un ex assessore del presidente del Gabon (Bongo, tra i più corrotti del pianeta) e con un mio vecchio amico broker che vive a Jersey sul Canale della Manica, paradiso fiscale. Ero stato convocato per un’intermediazione relativa a una fornitura di rame dal Cile che è il maggior produttore al mondo e dove ho ancora delle entrature al riguardo. Di fatto però quando cominciò a parlare quest’uomo il rame passò in secondo piano, anzi, non se ne parlò affatto fino al giorno dopo. Questo misterioso personaggio ha lavorato per anni per l’Office of Foreign Assets Control degli Stati Uniti e con quelle del suo paese per verificare la correttezza delle operazioni bancarie che avvenivano nel suo paese, le Isole Cayman. Il problema è sorto quando essendo arrivato al vivo delle questioni le stesse autorità competenti lo hanno bloccato e poco dopo licenziato. Questo è quello che ho appreso:
I più importanti paradisi fiscali del mondo non sono isole tropicali disseminate di palme come molti immaginano, ma alcune delle maggiori potenze mondiali. il maggior paradiso fiscale è un’isola e quell’isola si chiama Manhattan e a seguire viene Londra nel Regno Unito. Gli stessi governi che hanno dimostrato e dimostrano di dare lotta al sistema offshore sono i primi a utilizzarlo e beneficiarne. Metà dell’economia mondiale si muove nell’ambito fuori giurisdizione, o meglio attraverso giurisdizioni segrete. Il mondo offshore è un ecosistema in continua evoluzione. Ciascuna giurisdizione segreta offre uno o più servizi specializzati e richiama particolari tipi di capitale finanziario. I servizi offshore vanno dal legale all’illegale. L’evasione fiscale è illegale, mentre l’elusione fiscale è legale. Le giurisdizione segrete trasformano ciò che è tecnicamente legale ma scorretto in qualcosa che è percepito come legittimo. Ciascuna giurisdizione segreta tollera divesi livelli d’illegalità: i narcootrafficanti colombiani o messicani si servono di Panama piuttosto che di Jersey anche se le società fiduciarie di Jersey ricevono verosimilmente una parte di questo denaro sporco.
The Devil che conosce tutti i meccanismi ci ha spiegato che le strutture finanziarie offshore spesso utilizzano uno strattagemma chiamato laddering. Una struttura viene suddivisa tra diverse giurisdizioni, ciascuna delle quali fornisce un nuovo involucro legale o contabile i capitali, che sono solitamente ubicati altrove. Il laddering accresce la segretezza e la complessità. Tutto questa conversazione si è svolta ovviamente in lingua inglese e non con poca difficoltà sono riuscito a recepire e interloquire con i personaggi presenti. Ero così affascinato dal tema trattato che io stesso ho messo da parte la ragione per cui ero stato convocato.
Per esempio, un narcotrafficante messicano potrebbe depositare 20 milioni di dollari in un conto in banca a Panama, che non è intestato a lui ma a un trust creato alle Bahamas I trustee (amministratori fiduciari) potrebbero vivere a Jersey, mentre il beneficiario del trust potrebbe essere un’impresa del Delaware. Se anche si riuscissero a trovare i nomi degli amministratori della società e persino le fotocopie dei loro passaporti, ci si troverebbe comunque al punto di partenza:questi trustee saranno centinaia di società simili. Anche qualora si riescano a intravedere parti del sistema la prassi del laddering impedisce di osservare il tutto. Le attività offshore non si svolgono in alcuna giurisdizione ma si svolgono negli interstizi tra giurisdizioni. L’altrove diventa da nessuna parte, un mondo senza regole..
IL TRUST
L’istituzione del trust risale al Medioevo, quando i cavalieri che partivano alle crociate lasciavano i loro averi nelle mani di amministratori fidati che se ne prendevano cura per conto del cavaliere fino al suo ritorno. Era un accordo triangolare che univa il legittimo proprietario del patrimonio (il cavaliere) e il beneficiario (la sua famiglia) attraverso un intermediario
(l’amministratore o trustee). I trust sono meccanismi silenziosi e potenti che non molte persone conoscono mi diceva The Devil con il suo sigaro Cohiba tra le dita. E’ impossibile trovarne traccia negli archivi pubblici, in quanto sono il frutto di un accordo segreto tra gli avvocati e i loro clienti. Essenzialmente il trust agisce sulla proprietà di un patrimonio. Un trust scompone la proprietà in parti distinte. Con la creazione di un trust, un soggetto trasferisce il suo patrimonio all’amministratore fiduciario che ne diventa l’effettivo proprietario. Questi però non può spenderlo o consumarlo liberamente perché è tenuto a rispettare i termini del mandato fiduciario, ovvero l’insieme di istruzioni che gli indicano come distribuire i benefici tra i beneficiari. Un uomo facoltoso con due figli per esempio può depositare un milione di dollari in un conto in banca ( non certo in Italia…) intestato a un trust e nominare un avvocato come amministratore fiduciario, impartendogli l’ordine di trasferire a ciascuno dei suoi due figli la metà del denaro al compimento del loro ventunesimo anno d’età. Anche se l’uomo muore prima il trust sopravvive e il trustee è tenuto per legge a obbedire alle istruzioni che gli sono state date. E’ quasi impossibile violare un contratto fiduciario. I trust sono istituti completamente legittimi ma possono essere e molto spesso vengono usati per scopi come l’evasione fiscale o il riciclaggio. E qui andiamo al nocciolo della conversazione. I trust producono due effetti: prima di tutto, creano una solida barriera giuridica che separa i diversi elementi della proprietà, quindi questa barriera giuridica può diventare e il più delle volte lo diventa, un’impenetrabile barriera informativa. I trust possono avvolgere i patrimoni (che si tratti di denaro contante o proprietà immobiliari etc.) in una segretezza di ferro. Immaginiamo che alcuni ispettori fiscali, giudici o PM d’assalto vogliano indagare su qualcuno che possiede diversi milioni di dollari in un trust sull’Isola di Jersey o alle Cayman: gli inquirenti avranno difficoltà persino ad avviare l’indagine, perché i trust di questi luoghi non sono iscritti in alcun registro ufficiale o pubblico. Se però sono fortunati e riescono a scoprire l’identità del trustee, probabilmente si troveranno di fronte a un avvocato del posto che per professione fa l’amministratore fiduciario di diverse migliaia di trust. Il legale potrebbe essere l’unica persona al mondo a conoscenza dell’identità del beneficiario ed è obbligato al segreto professionale a non rivelare questa informazione. Gli ispettori fiscali si trovano così di fronte a un ostacolo insuperabile. Questo regime di segretezza può essere reso ancora più impenetrabile stratificando diverse strutture segrete l’una sull’altra. I milioni di dollari dei trust delle Cayman o di Jersey potrebbero essere in realtà depositati in un conto a Panama, anch’esso protetto da un rigoroso segreto bancario. In questo caso gli zelanti inquirenti non riuscirebbero a strappare nemmeno sotto tortura il nome del beneficiario perché l’avvocato quasi sicuramente non potrebbe conoscere la sua vera identità. Il suo compito è semplicemente quello di inviare i bonifici o gli assegni a un altro legale da qualche altra parte, anch’egli un soggetto diverso dal beneficiario! E si può andare avanti così sovrapponendo un trust di Jersey a un altro alle Cayman e poi poggiando quest’ultimo su una struttura segreta del Delaware. Volendo rintracciare il denaro l’INTERPOL dovrebbe avviare una serie di procedure giudiziarie così complesse, lunghe e onerose in un paese dopo l’altro. E se anche lo facesse, potrebbe scoprire che alcuni paesi ammettono clausole di fuga: al primo settore d’indagine, il patrimonio viene trasferito automaticamente altrove.
A conclusione di questo istruttivo quanto sconcertante pomeriggio sono riuscito ad avere un quadro completo del sistema offshore che prima pensavo in qualche modo di aver capito ma in realtà le informazioni in mio e forse vostro possesso sono veramente scarse e approssimative. Il sistema offshore non è costituito da un gruppo di stati indipendenti che esercitano il proprio diritto sovrano di emanare leggi e creare sistemi fiscali che ritengono più appropriati; è piuttosto un insieme di reti di influenza controllate dalle maggiori superpotenze mondiali, in particolare la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Ciascuna rete è profondamente interconnessa a tutte le altre. I ricchi imprenditori e le imprese statunitensi fanno ampio uso della ragnatela britannica. I governi delle nazioni ricche dell’Ocse sono riusciti a convincere i cittadini (ignari ahimè…) di aver imposto un drastico giro di vite alle giurisdizioni segrete. “ Questo è un nuovo mondo caratterizzato da maggior trasparenza e cooperazione”… ha affermato il responsabile delle politiche fiscali dell’Ocse Owens e addirittura prima di uscire dalla scena il presidente francese Sarkozy disse che i paradisi fiscali e il segreto bancario sono finiti. Molti gli hanno creduto. Ebbene gli stati membri dell’Ocse, in particolare la Gran Bretagna e gli Stati uniti e diversi grandi paradisi fiscali europei sono i custodi del sistema offshore che continua a trattare grossi volumi di capitali illeciti.
Più della metà del commercio mondiale passa attraverso i paradisi fiscali. Oltre la metà di tutti gli attivi bancari e un terzo dell’investimento diretto estero effettuato dalle imprese multinazionali vengono dirottati offshore. Circa l’85% delle emissioni bancarie e obbligazionarie internazionali si svolge nel cosiddetto euromercato, una zona offshore extraterritoriale. Nel 2010 il FMI ha stimato che i soli bilanci dei piccoli centri finanziari insulari ammontavano complessivamente a 18.000 miliardi di dollari, una somma equivalente a circa un terzo del PIL mondiale; e questa si è detto era probabilmente una stima per difetto… L’80% delle maggiori imprese statunitensi possedeva società controllate nei paradisi fiscali. In ciascun paese europeo che si avvaleva di controllate offshore l’utente di maggiore dimensioni era di gran lunga una banca. The Devil, soprannominato così dalle società sulle quali indagava, terminò il suo sigaro, ci fece un grosso sorriso e dopo averci stretto la mano si ritirò nella sua abitazione.
A questo punto della storia e In questo mondo, dove continuo ad affermare che nulla è come sembra, come direbbe una mia amica newyorchese: light your fireplace and get cozy, have your wine and fine tobacco…

Un testo di Paola Severino

vesos

In genere non siamo molto soliti a pubblicare testi di ministri, politici o burocrati. 

Non amiamo la retorica, l’autocelebrazione e l’aria fritta.

Questo testo -pubblicato su Il Messaggero del 27 dicembre-  però ce l’ha segnalato il nostro Giovanni Arcuri, qualche settimana fa, dicendoci che era un testo.. particolare.. che meritava di essere letto e pubblicato.

L’ho letto e mi trovo a dargli ragione.

Qualunque giudizio si voglia dare sulla Severino e sul suo anno da Ministro della Giustizia, questo è un bel pezzo e credo che sia scritto con spirito sincero.

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Il Messaggero, 27 dicembre 2012

Il privilegio di essere ministro si è concretizzato per me quest’anno nella possibilità di avere due incontri, nei giorni di Natale, con gli agenti di Polizia penitenziaria e con le detenute e i detenuti di Regina Coeli e Rebibbia. Un privilegio, si chiederà qualcuno, pranzare in carcere in questi giorni di festa? Un privilegio, vi risponderà chiunque abbia esperienza di carcere e della grande umanità che vi si respira. Una umanità che si manifesta nel calore e nell’impegno con cui un detenuto condannato per avere ucciso la moglie gravemente ammalata, ponendo così fine alle sue sofferenze, si occupa di scrivere memorie e istanze in difesa di poveri disgraziati che non possono permettersi neppure un avvocato per chiedere provvedimenti cui in tanti casi avrebbero diritto.

L’umanità di un detenuto marocchino consumato dalla sofferenza, che chiede solo di essere trasferito nelle carceri del suo Paese per stare vicino alla sua famiglia, dando così ragione del perché si deve continuare a stringere accordi di cooperazione per il trasferimento di detenuti con le nazioni africane che si affacciano sul Mediterraneo.

L’umanità di donne rinchiuse in reparti di massima sicurezza per essere mogli di noti mafiosi e camorristi, che cuciono bellissime coperte patchwork e preparano gli struffoli più buoni che abbia mai assaggiato pensando ai loro familiari a casa e chiedendosi se sarà loro mai concesso un permesso premio o una detenzione domiciliare.

L’umanità straziante di una donna che stringe tra le braccia il suo piccolo di due mesi e mezzo e che ti racconta, piangendo all’improvviso, di aver ucciso con un colpo di pietra l’uomo che era entrato nella sua roulotte compiendo atti osceni innanzi ai suoi sei figli. È a quel punto che a tutte si inumidiscono gli occhi pensando al Natale dei loro figli a casa e ai tanti Natali che dovranno trascorrere senza la loro mamma, affidati a volte ad estranei.

Certo, si tratta di persone che hanno commesso delitti a volte gravi, ma che hanno bisogno del supporto di un avvocato, dell’attenzione di un giudice, delle parole di un direttore o di un agente del carcere per sentire che il proprio caso e la propria posizione giuridica sono seguiti con senso di vera giustizia. E quando, alla fine degli incontri, ti salutano con un applauso e dicendoti grazie, ti chiedi che cosa tu abbia fatto per loro, per meritare quella loro gratitudine.

Sempre troppo poco, è la risposta, visto che, nonostante le riforme fatte, e gli sviluppi del piano carceri, ancora molto rimane da fare sulle misure alternative alla detenzione e sul finanziamento del lavoro in carcere. Due interventi che finalmente vedrebbero il carcere come extrema ratio e che consentirebbero un vero reinserimento sociale con bassissima recidiva, ma che sono naufragati per irragionevoli contrapposizioni politiche e per logiche di spartizione di fondi che nulla hanno a che vedere con una equa distribuzione di pubbliche risorse.

La condivisione poi della mensa con gli agenti di polizia penitenziaria, vivendo con loro il tempo che altri dedicano alla preparazione del cenone di Natale o agli ultimi acquisti di regali natalizi, ti aiuta a comprendere la grande professionalità e la grande dedizione del loro impegno.

C’è chi tutti gli anni copre il turno della vigilia, per assistere con i detenuti alla messa di mezzanotte; chi si fa assegnare il turno del giorno di Natale per esser presente al rito dell’apertura dei doni sotto l’albero da parte dei bimbi delle madri detenute; chi, più semplicemente, svolge il proprio dovere con serietà e con competenza, anche nei giorni in cui il carcere è più duro sia per i detenuti sia per chi li custodisce; chi ti racconta di aver desiderato fin da bambino di entrare tra gli agenti di polizia penitenziaria, ricordandosi l’immagine di una nonna, vecchia vigilatrice in un istituto carcerario, che tornava tutte le sere a casa esibendo con orgoglio la propria divisa.

Un mondo di eroi silenziosi, ai quali affidiamo il difficile compito di custodire uomini sofferenti e di garantire la nostra sicurezza. Il loro dignitoso silenzio, come quello di chi non può far sentire la propria voce dal fondo di una cella, non devono però permetterci di dimenticare che i problemi del carcere e del sovraffollamento attengono alla dignità dell’uomo e potranno veramente essere affrontati e risolti solo attraverso una condivisa consapevolezza.

 

Il punto di riferimento (seconda parte)… di Giovanni Arcuri

Il tre novembre avevo pubblicato la prima parte di questo pezzo, del nostro Giovanni Arcuri, detenuto a Rebibbia (vai al link.. https://urladalsilenzio.wordpress.com/2012/11/03/il-punto-di-riferimento-prima-parte-di-giovanni-arcuri/).

Oggi pubblico la seconda e ultima parte.

Libertà, prigionia, potere, consenso. In questo testo Giovanni vola alto. Quale è il volto del potere? Quali sono le parole che stanno dietro alle parole? Quanto è  esteso il carcere? Quanti qui fuori sono prigionieri di altre prigioni? Quante risorse sono impiegata per fare perpetuare nel tempo il dominio dell’uomo sull’uomo?

E il nostro nemico chi è, dov’è? Sempre visibile, o impalpabile, abile a mascherarsi, pronto a dare caramelle e a nascondere fruste.

Il testo di Giovanni parla un po’ di tutto ciò. L’unico limite, se vogliamo, è che il tema è talmente COLOSSALE, che richiederebbe centinaia di pagine. Ma sicuramente, Giovanni non ha concluso con il suo interesse e i suo scritti su queste dinamiche.

Vi lascio ora alla seconda parte de “Il punto di riferimento”.

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Alcune notti fa ho sognato con mia figlia, però era piccolina e stava prendento lezioni di nuoto in una piscina coperta.

Indossa un costume rosso. Sa già nuotare ma non si sente ancora abbastanza sicura per farlo senza sostegno.

L’istruttrice la porta sul lato della piscina dove non si tocca.

La bambina deve saltare nell’acqua afferrandosi ad una lunga bacchetta che l’insegnante tiene tesa verso di lei. E’ un modo di aiutarla a vincere la paura dell’acqua.

Oggi però l’istruttrice vuole che la bambina salti senza aggrapparsi alla bacchetta. Uno, due, tre! La bambina salta, ma all’ultimo momento afferra l’asta. Nessuna delle due dice niente, ma si scambiano un vago sorriso.

Mia figlia esce dall’acqua arrampicandosi sulla scaletta e torna sul bordo della piscina.

<<Lasciami saltare di nuovo…>> dice. La donna fa un cenno di assenso. Roberta ispira, sibilando e salta, le mani lungo i fianchi e senza afferrarsi a niente. Quando riemerge la punta della bacchetta è proprio lì davanti  al suo naso. Fa due bracciate fino alla scaletta senza toccarla. Brava!

Nell’istante in cui mia figlia è saltata in acqua senza la bacchetta, nessuna delle due era in prigione.

Mi sveglio ed inizio la mia giornata con positività.

Osservate la struttura del potere senza precedenti che circonda il mondo, e come funziona la sua autorità. Ogni tirannia scopre ed improvvisa il proprio insieme di controlli.

Ed è per questo che al principio non ci rendiamo conto che si tratta di controlli viscosi.

Le forze del mercato che dominano il mondo asseriscono di essere inevitabilmente più forti di ogni stato-nazione. Questa asserzione è confermata ogni istante. Da una telefonata o e-mail non richiesta per convincere l’abbonato a sottoscrivere una nuova assicurazione sanitaria o pensione privata fino al più recente ultimatum dell’Organizzazione mondiale del commercio.

Il risultato è che la maggior parte dei governi non governa più. Un governo non procede più nella direzione che si è scelto.

La parola orizzonte, con la su promessa di un futuro in cui sperare, è svanita dal discorso politico, a destra e a sinistra. La sola cosa ancora aperta alla discussione è come misurare quel che c’è.

I sondaggi di opinione rimpiazzano l’ordinamento e si sostituiscono al desiderio.

La maggior parte dei governi ammassa il branco invece di governare.

Nel settecento alla pena della carcerazione a lungo termine si dava con tono di approvazione la definizione di “morte civile”. Tre secoli dopo i governi stanno imponendo con la legge, forza, le minacce economiche ed il brusìo mediatico sempre più influente, regimi di massa di “morte civile”. Vivere sotto una qualsiasi tirannide del passato non era una forma di carcerazione? Non nel senso che sto descrivendo: quel che viviamo oggi è nuovo, per via del rapporto che ha con lo spazio.

Le forze del mercato finanziario che oggi governano il mondo sono extraterritoriali, vale a dire libere dalle costrizioni territoriali, le costrizioni della località. Sono perennemente remote, anonime, e dunque non devono preoccuparsi dell conseguenze fisiche, territoriali, delle loro azioni.

<<La posta odierna è creare condizioni favorevoli alla fiducia degli investitori…>> affermava poche settimane fa  il presidente della Banca federale tedesca. La sola e suprema priorità.

Ne consegue che il controllo delle popolazioni mondiali, composte d produttori, consumatori e poveri emarginati, è il compito assegnato ai docili governi nazionali.

Il pianeta è una prigione ed i governi di destra e di sinistra sono i carcerieri. 

Il sistema prigione opera grazie al ciberspazio. Il ciberspazio offre al mercato una rapidità di scambio pressocché istantanea, in funzione ventiquattro ore su ventiquattro in tutto il mondo per commerciare. Da questa rapidità, da questa velocità, la tirannia del mercato ottiene la sua licenza extraterritoriale. Una simile velocità, tuttavia, ha un effetto patologico su quelli che la praticano: li anestetizza. Qualunque cosa succeda, business as usual.

Quella velocità non lascia spazio al dolore: forse alle sue avvisaglie ma non alle sofferenza. Di conseguenza, la condizione umana è bandita, esclusa, da chi fa funzionare il sistema, che è solo perché non ha cuore.

In passato i tiranni erano spietati e inaccessibili, ma facevano parte del vicinato ed erano esposti al dolore. Non è più così, ed in questo sta il probabile punto debole del sistema.

Loro sono miei compagni di prigionia. Questo riconoscimento, con qualunque tono di voce lo si dichiari, contiene un rifiuto. Da nessuna parte più che in prigione il futuro è conteggiato e atteso, come qualcosa di assolutamente opposto al presente. Chi è in carcere non accetterà mai che il presente sia definitivo. 

Nel frattempo, come vivere questo presente? Che conclusione trarre? Come agire? Adesso che il punto di riferimento è stato fissato ho qualche indicazione da suggerire.

Di qua dai muri si dà retta all’esperienza, nessuna esperienza è considerata obsoleta. Qui la sopravvivenza è rispettata ed è inutile dire che spesso dipende dalla solidarietà dei compagni di prigionia e dalla forza  di carattere di ciascuno. Essere attivi mentalmente e fisicamente. 

Le autorità lo sanno, ecco perché spesso ricorrono all’isolamento, attraverso la segregazione fisica o il loro brusio mediatico, per disconnettere le vite individuali della storia, del lascito del passato, della terra e, soprattutto, un futuro comune.

Ignorate le chiacchiere dei carcerieri dentro e fuori dal muro. Ovviamente tra i carcerieri, ce ne sono di cattivi e meno cattivi. In certe condizioni è inutile notare la differenza.

Ma quel che dicono sono una marea di cazzate. I loro inni, le loro parole, per esempio Sicurezza, Democrazia, Identità, Civiltà, Flessibilità, Produttività, Umanizzazione della pena, Diritti Umani, Integrazione, Terrorismo, Libertà, sono ripetuti all’infinito per confondere, dividere, distrarre e sedare tutti i compagni di prigionia, fuori e dentro.

Le loro parole sono prive di significato perché c’è l’inganno. Riflettete in silenzio e mi darete ragione, analizzate i particolari, gli accanimenti mediatici su un qualcosa che poi puntualmente sparisce dalle scene e non se ne parla più. Sono segnali, piccole cose che s’insidiano nelle menti e condizionano atteggiamenti e punti di vista. Per raggiungere scopi ben precisi di volta in volta.

Tra i compagni di prigionia non mancano i conflitti, fuori e dentro. In alcuni casi anche violenti.

Tutti i prigionieri sono deprivati (non depravati mi raccomando…) eppure ci sono diversi gradi di deprivazione e le differenze di grado suscitano invidia. Di qua dai muri la vita in molte prigioni del mondo vale poco. Il fatto che la tirannide globale sia senza volto incoraggia la ricerca di capri espiatori, di nemici immediatamente identificabili tra gli altri reclusi. E’ fondamentale mantenere un livello di allarme sociale, contrariamente i fondi che i poveri contribuenti sono costretti a sborsare finirebbero altrove. E questo loro  non lo vogliono. Sono anch’essi parte di un meccanismo ma la loro catena serve a chi si trova più in alto di loro e continui ad operare indisturbato. Se ogni tanto bisogna inventare qualche ricca storia, fabbricare prove dal nulla, condannare sull’intenzione ed altre cose aberranti è un sacrificio accettabile per il mantenimento dello status quo, poi se il sacrificato è uno qualsiasi o un pregiudicato, meglio ancora. Carne da macello.

Questo stato di cose alla lunga crea il caos. I poveri aggrediscono i poveri, chi è stato invaso saccheggia invasore. I compagni di prigionia non andrebbero idealizzati.

Senza idealizzare, prendete nota di quello che hanno in comune, la loro inutile sofferenza, la loro resistenza, la loro scaltrezza, la loro esperienza, è più significativo, più eloquente di quel che lì separa. E’ a partire da qui che si creano nuove forme di solidarietà. Le nuove solidarietà iniziano con il reciproco riconoscimento delle differenze e delle molteplicità. <<Se questa è vita!…>>. Vi ricordate? Una solidarietà non di massa ma reticolare, di gran lunga più appropriata alle condizioni di vita di un carcere.

Le autorità fanno sistematicamente del loro meglio per tenere i compagni detenuti di prigionia male o poco informati su quel che succede altrove nella prigione del mondo. Non indottrinano nel senso  aggressivo del termine. L’indottrinamento è riservato alla formazione di una piccola èlite di operatori ed esperti di management e mercato. Riguardo alla massa della popolazione carceraria globale lo scopo è non attivarla, bensì tenerla in uno stato di insicurezza passiva, per ricordarle senza rimorsi che nella vita non c’è altro che rischio e che la terra è un posto pericoloso.

Lo si fa mescolando informazioni accuratamente selezionate, informazioni sbagliate, commenti, dicerie, storie inventate di sana pianta. Gossip, cronaca nera, sport… peanuts. Nella misura in cui riesce, l’operazione propone e alimenta un paradosso allucinante, poiché spinge la popolazione carceraria a credere che per ognuno dei suoi membri la priorità sia organizzare la propria difesa personale e ottenere, in qualche modo, nonostante il comune stato di reclusione, la propria speciale esenzione dal destino collettivo. Emergere dal branco ed avere successo.

L’immagine dell’umanità che ci viene trasmessa dalla visione del mondo è ancora una volta senza precedenti. L’umanità è presentata come una massa di codardi: solo i vincenti sono coraggiosi. Inoltre non ci sono regali: ci sono solo premi.

I prigionieri hanno sempre trovato dei sistemi per comunicare tra loro. Nell’attuale prigione globale il ciberspazio può essere usato contro gli interessi di chi lo ha originariamente installato. In questo modo i pochi reclusi con consapevolezza raccolgono informazioni su quel che il mondo fa ogni giorno e ricostruiscono le storie del passato, trovandosi così fianco a fianco con i morti.

Nel farlo riscoprono piccoli doni, esempi di coraggio, testimonianze di qualche valoroso che non ha accettato a schiena curva i condizionamenti. Un’unica rosa in una cucina dove non c’è abbastanza da mangiare, odio religioso, conflitti, dolori indelebili, l’instancabilità delle madri, risate, aiuto reciproco, silenzio, una resistenza che continua a crescere, il sacrificio volontario, altre risate…

I messaggi sono brevi, ma si protraggono nella solitudine delle loro (nostre)  notti.

L’indicazione finale non è tattica ma strategica.

Il fatto che i tiranni del mondo siano extraterritoriali spiega la misura della loro capacità di sorveglianza, ma indica anche una debolezza a venire.

Operano nel ciberspazio e abitano in condomini strettamente vigilati. La privacy però è un lusso passato di moda, il controllo è quasi totale. Il nostro, ma anche il loro. Le cose gli stanno sfuggendo di mano. Non sanno niente della terra che li circonda. Né vogliono conoscerla, perché a sentir loro si tratta di un sapere superficiale, senza profondità. Contano solo le risorse che ne estraggono., compreso l’oppio dall’Afganistan e il petrolio e gas dei paesi limitrofi per cui migliaia di poveri ragazzi ignari, italiani inclusi, continuano a morire. Non possono prestare ascolto alla terra, sul terreno sono ciechi. Nello spazio fisico e locale sono persi, a loro interessa il raggiungimento di un mercato unico globalizzato, ad ogni costo. Lo spread è un male accettabile, va e viene, e poi c’è sempre tra di loro chi specula e non poco…

Per i compagni di prigionia è vero il contrario. Le cellule hanno pareti che si toccano da una parte all’altra dal mondo. Gli atti  concreti di resistenza, derivanti da una presa di coscienza, se prolungati, si radicheranno nel locale, vicino e lontano. Il risveglio delle coscienze dopo generazioni. Ognuno avrà il diritto di scegliere quale strada percorrere, autonomamente e senza condizionamenti.

Lentamente la libertà viene ritrovata non all’esterno, ma nel cuore della prigione. Uniti.

Rebibbia jail, Year of hope

Giovanni Arcuri

Il punto di riferimento (prima parte)… di Giovanni Arcuri

Eccoci con ancora col nostro Giovanni Arcuri

Giovanni è detenuto a Rebibbia- è uno degli amici del Blog emerso questo anno.

Ha scritto tre libri (di cui due pubblicati), è prossimo alla laurea in legge, ed è divorato da una sete di conoscenza, che investe soprattutto argomenti di frontiera.

E’ uno studioso acuto, a volte anche raffinato, delle dinamiche contemporamee che investo i circuiti del potere e della consapevolezza.

Il testo, di cui oggi pubblico solo la prima parte, si gioca sulle forme di prigionia.. “classiche” ed immediatamente visibili, come quelle carcerarie… e più sfumate e percepibili, come quelle rappresentate da contesti di influenza e di controllo che agiscono anche su molti di coloro che sono “a piede libero”.

E’ un testo sul potere e sui condizionamenti e, quindi, anche sulle strategie di liberazione.

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Di questi tempi sempre più cose sono codificate.

Perciò mi chiedo se non ci si siano altri strumenti di misura altrettanto non codificati e tuttavia precisi, con cui calcoliamo altri dati.

Per esempio la quantità di libertà circostanziata esistente in una data situazione, a sua ampiezza ed i suoi limiti esatti.

I detenuti diventano esperti in materia. Sviluppano una sensibilità particolare nei confronti della libertà, non come principio ma come sostanza granulare. Quando se ne presenta un frammento, loro lo riconoscono istantaneamente.

In una giornata ordinaria, quando non succede niente e le crisi annunciate di ora in ora sono quelle di sempre (e tanto per cambiare i politici di turno dichiarano che senza di loro sarebbe la catastrofe) passando accanto a qualcuno può succedere di scambiarsi un rapido sguardo, un cenno impercettibile. Alcune di queste mute occhiate servono a verificare se anche gli altri immaginano la stessa cosa quando si dicono: <<… e questa è vita?>>.

Spesso stanno immaginando la stessa cosa e in questa condivisione primaria c’è  una specie di solidarietà che precede ogni parola o scambio di opinioni.

Cerco le parole per definire il periodo storico che stiamo vivendo. Dire che non ha precedenti non significa molto, perché, da quando si è Scoperta la Storia, ogni periodo è stato senza precedenti!

Non sono alla ricerca di una definizione complessa del periodo che stiamo attraversando per poi crogiolarmi nel rileggere il mio pezzo che chissà quale giornale si azzarderà a pubblicare (anche se ogni tanto qualcuno vi casca…). A questo proposito non mancano i pensatori tipo Zigmut Bauman con la sua Vita liquida che si sono assunti questo compito essenziale. Sto semplicemente cercando un’immagine che funzioni da punto di riferimento. I punti di riferimento non si spiegano fino in fondo, ma ci offrono un terreno comune. In questo senso somigliano ai taciti presupposti contenuti nei saggi proverbi popolari.

Senza punti di riferimento si corre l’enorme rischio umano di girare a vuoto.

Il punto di riferimento che ho trovato è quello della prigione. Non perché mi ci trovo e ci sto sopravvivendo ma perché in tutto il pianeta l’umanità vive in una prigione.

La parola “noi”, stampata o pronunciata sugli schermi, è ormai sospetta, perché chi ha potere la usa di continuo affermando demagogicamente di parlare anche a nome di chi non ne ha.

Per parlare di noi usiamo dunque il “loro”. Loro vivono in una prigione.

Che genere di prigione? Come è fatta? Dove si trova? O sto usando la parola solo  come una figura del discorso?

No, non è una metafora, la reclusione è reale, ma per descriverla bisogna pensare in termini storici.

Quella dove mi trovo io è facile da immaginare perché è un classico penitenziario della vecchia Europa. Ma la loro com’è? Che genere di prigione è?

Michel Foucault ha dimostrato in modo vivido che il penitenziario è un’invenzione del tardo settecento, inizi dell’ottocento, strettamente connessa alla produzione industriale, alle sue fabbriche e alla sua filosofia utilitaristica.

Prima di allora le carceri erano estensioni delle gabbie e delle segrete.

Quel che distingue il penitenziario è il numero dei prigionieri che vi si possono ammassare e il fatto che sono tutti sotto costante sorveglianza.

La contabilità è un fattore essenziale nel pianeta carcere. In tutti i sensi.

Oggi, nel’era della globalizzazione, il mondo è dominato dal capitale finanziario, non da quello industriale e i dogmi che definiscono la criminalità e le logiche carcerarie sono radicalmente cambiati. I penitenziari esistono e ne vengono costruiti ogni anno di nuovi. La società ha bisogno che vengano riempiti per la sua stessa sopravvivenza. E’ una questione di numeri, di bilanci, di status quo da mantenere, di posti di lavoro, di presupposti stanziati, di potere da conservare anche con menzogne. Un gran circo.

Adesso però le pareti della prigione servono a uno scopo diverso, quello che costituisce un’area di carcerazione si è trasformato.

Tra capitalismo industriale, dipendente dalla produzione delle fabbriche e capitalismo finanziario, dipendente dalle speculazioni del libero mercato e dagli operatori che gestiscono l’interazione con il cliente (le transazioni finanziarie speculative ammontano ogni giorno, a 13000 miliardi di dollari; cinquanta volte più degli scambi commerciali), l’area di carcerazione è cambiata.

Adesso la prigione è grande come il pianeta e le sue zone assegnate, variano e possono essere favelas, sobborghi… la cosa essenziale è che quelli che sono reclusi  in queste zone, sono miei compagni di prigionia. Ma come è possibile se sono fuori?

Oggi lo scopo di buona parte dei muri delle prigioni (di cemento, elettronici, pattugliati o inquisitori) non è tenere dentro i prigionieri e rieducarli, ma tenerli fuori ed escluderli.

La maggior parte degli esclusi sono senza nome. Da questo deriva l’ossessione per l’identità delle forze di sicurezza sono anche senza numero. Per due ragioni.  Primo perché il loro numero fluttua: ogni carestia, disastro naturale e intervento militare riduce o aumenta la loro moltitudine. A volte questi interventi militari nascondo interessi  economici e petroliferi. Nel terzo millennio chi controlla l’energia controlla il mondo . Secondo, perché stimarne il numero significa affrontare il fatto che loro costituiscono la maggior parte degli esseri viventi sulla faccia della terra. Guardare in faccia questa realtà vuol dire precipitare nell’assoluta assurdità.

Liberare i piccoli prodotti dalla loro confezione è sempre più difficile. I paraocchi  sono sempre più attaccati al volto degli umani, ricchi o poveri non ha importanza.

Succede con le vite di chi ha un impiego remunerativo. Chi ha un lavoro legale e non è povero, vive in uno spazio ridottissimo che gli permette un numero sempre minore di scelte, salvo la continua scelta binaria tra ubbidienza e disubbidienza.

Il suo orario di lavoro, il suo luogo di residenza, le sue competenze, e la sua esperienza passata, la sua salute, il futuro dei suoi figli, tutto quello che esula dalla sua funzione di dipendente deve occupare una piccola porzione di secondo piano rispetto alle esigenze enormi e imprevedibili del profitto liquido. Inoltre la rigidità di questa “regola della casa” è chiamata flessibilità

La vita liquida è una vita di consumi. Al successo della ricerca della felicità, fine apparente e motivazione dominante della vita individuale, si oppone continuamente il nodo stesso in cui avviene tale ricerca. L’infelicità che ne deriva conferisce maggior ragione ad una life politics , una politica di vita egocentrica: il suo effetto ultimo è il perpetuarsi della liquidità della vita che si alimenta attraverso l’insoddisfazione dell’io rispetto a se stesso.

Seguire nuove diete più efficaci, tenersi in forma con gli ultimissimi gadget, avere più carte di credito, sostituire l’utilitaria con il SUV, la t-shirt con la camicia con il giocatore di polo, farsi aumentare o ridurre il seno, cambiare le scarpe da ginnastica con quelle dell’ultimo grido, scegliere marche di liquori e abitudini quotidiane in linea con le ultime tendenze, andare in viaggio (indebitandosi) nella località di moda per vedere i veri ricchi da lontano, confessare pubblicamente i propri moti dell’animo usando un lessico assolutamente originale… tutto ciò andrà benissimo.

<<Non esiste altro sistema, se non entri nello schema non sei nessuno…>> viene detto a chi ha un impiego remunerativo. Non c’è alternativa. Prendete l’ascensore. L’ascensore è una piccola cella.

In prigione le parole cambiano di significato.

In  molti anni di viaggi ed esperienze in giro per il mondo ho constatato che spesso gli stessi che chiedevano l’applicazione delle leggi erano i primi ad aggirarle o violarle con il consenso di importanti organismi governativi. Quasi sempre erano altri a pagare certe colpe e le piccole pedine ricevevano invece pene superiori di quelle che con le reali responsabilità avrebbero meritato. Solo toccando con mano certe verità, viaggiando e conoscendo realtà diverse, economie diverse, situazioni diverse, si può avere la situazione un pochino più sotto controllo. Contrariamente, la realtà nascosta, “l’impero sotterraneo”, rimarrà tale agli occhi di tutti.

In tutto questo quadro  i mass media dicono quasi sempre quello che conviene al governo di turno, trasmetto quello che fa più audience, anche se è spazzatura. Tutto è calpestato per fini propagandistici o di interesse politico, dove la demagogia regna sovrana.

Ogni tanto c’è anche anche chi ha il coraggio di affermare la verità ma lo fanno durare poco, è sempre scomodo chi scoperchia “pentoloni bollenti” e mette in mostra magagne e ingiustizie.

Se fossi rimasto nel mio Paese forse non avrei avuto questa “scossa”, questo impatto con realtà differente e crude ed avrei avuto dei paraocchi per tutta la vita senza rendermene conto. Pensando di essere nel giusto, sarei stato semplicemente ignaro. Sarebbe stata un’esistenza non vera ed avrei vissuto di una luce falsata o riflessa. La tranquillità derivante da una narcosi, contro una vita reale dove ti puoi fare male, ma in cui vedi realmente quello che succede. Di conseguenza, quando farai delle scelte, saranno a ragion veduta.

Un bel rebus. Il prezzo da pagare è indubbiamente alto e non visibile ad occhio nudo.

Forse non è un caso che mi trovi qui oggi.

(FINE PRIMA PARTE)

 

Quale emergenza… di Giovanni Arcuri (seconda parte)

Alcuni giorni fa ho inserito la prima parte di un testo inviatoci dal nostro Giovanni Arcuri, detenuto a Rebibbia (vai al link.. https://urladalsilenzio.wordpress.com/2012/10/01/quale-emergenza-di-giovanni-arcuri-prima-parte/).

Oggi inserisco la seconda parte.

Giovanni ci mette la consueta acutezza. Voglio citare un passaggio:

“Una volta pagata la pena u individuo deve avere il diritto di gestire la sua vita come meglio crede, nel rispetto dei principi che governano la società civile, senza essere costretto ad una vita fatta di limitazioni incredibili. Un vero inferno per chi sa di cosa sto parlando… Una galera dopo la galera. Si continua a parlare di certezza della pena e mai di certezza della prova, che spesso volentieri latita.”

Già. La galera dovrebbe finire con la galera. E invece, in molti casi, in troppi casi, essa.. continua.. come se si portasse a vita un marchio di fuoco sulla pelle. 

Anche nelle altre riflessioni, come vedrete, Giovanni non le manda a dire..

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In questi ultimi anni la non separazione delle carriere tra gli inquirenti e i giudicanti ha costituito un circolo chiuso, aumentando a dismisura il potere acquisito, fino a collocarlo nell’ambito della non controllabilità e mettendo la difesa in una posizione di netta inferiorità, privando l’inquisito di una difesa garantita dal fantomatico art. 111 della nostra Costituzione che giace ormai nel dimenticatoio (26 emendamenti approvati e mai applicati). Attualmente l’irrituale potere acquisito dal P.M. e l’arbitrarietà dei giudici rasenta la follia permettendo sentenze di condanna anche in assenza  del reato fine. Si condanna su teoremi e si instaurano processi all’intenzione. Le condanne sono da tribunali dell’inquisizione, dovute sempre a questo stravolgimento del diritto di cui parlavo sopra. In nessun Paese d’Europa, una volta terminato di pagare il proprio debito con la giustizia, si continua ad essere controllati, sorvegliati, senza documenti per l’espatrio, spesso anche senza patente, il che impedisce al povero diavolo la possibilità di un lavoro ecc.ecc.

Qualcosa di vergognoso e afflittivo al di là dell’umana ragione. Definirei questo un atteggiamento persecutorio che porta il povero cristo spesso ad un ritorno al reato, perché privato degli strumenti per il reinserimento e per la sua esclusione implicita nel tessuto sociale. Una volta pagata la pena un individuo deve avere il diritto di gestire la sua vita come meglio crede, nel rispetto dei principi che governano la società civile, senza essere costretto ad una vita fatta di limitazioni incredibili. Un vero inferno per chi sa di cosa sto parlando… Una galera dopo la galera. Si continua a parlare di certezza della pena e mai di certezza della prova, che spesso volentieri latita. Oltretutto, dovrebbe essere individualizzante sull’imputato e non sul fatto oggetto di reato. Sulla scena europea, a parte le condanne che riceviamo costantemente da parte del Tribunale dei Diritti di Strasburgo e da quello di Giustizia del Lussemburgo, noto l’abisso che esiste tra il nostro Paese e quasi tutti gli altri, sia dal punto di vista dell’esecuzione delle pene, sia per il codice penitenziario e la stessa maniera di condurre le indagini, intercettazioni in primis. Facciamo schifo… Nel 1200 in Inghilterra la Magna Carta garantiva all’imputato un processo basato sulle leggi scritte e non sul libero convincimento. Qui da noi, dopo ottocento anni, siamo in una condizione peggiore.

La criminalità, quella vera, espressa purtroppo da quella che devasta la povera gente e causa morti e feriti in tutta Italia, proveniente il più delle volte da delinquenti dell’Est, disposti a tutto, non rispettando né la vita né la dignità umana, non viene quasi considerata, in quanto le forze dell’ordine non sono all’altezza di prevenire tali reati. Preciso che non sono prevenuto verso i cittadini dell’Est. Ci sono moltissimi bravi ragazzi di cui sono amico, però non possiamo negare che la maggior parte dei reati di sangue verso donne e cittadini indifesi proviene quasi completamente da loro.

Tornando agli inquirenti, si sono abituati a non lavorare come dovrebbero, affidandosi spesso ad un pentitismo falso, pieno di delazioni di persone inattendibili per la maggior parte della loro collaborazione, ma mai smentite per ovvi motivi di convenienza processuale, permettendo sentenze  di condanna tremende sulle spalle di molti innocenti o di persone con responsabilità minime.

Il capitolo delle indagini, dei riscontri, delle prove concrete è rimasto sotterrato. A questo mi riferivo! La convenienza a rassicurare il popolo con una finta efficienza pubblica fatta di scoop in prima serata al telegiornale ha dato spazio al dilagare della delinquenza vera e del mantenimento dello status quo per il resto. E i politici? Oh, i politici italiani si odiano anche all’interno dei loro stessi partiti, gelosi, biliiosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali (tesorieri in primis), la propria gloriuccia, la propria polarità di periferia e per la periferia. Per ottenere ciò si tradiscono, si accusano, si sputtanano.

L’Italia godereccia, furbetta, volgare, fatta di ipocrisie, di opportunismo, piccole furbizie che generano basso livello di produttività. L’Italia doppogiochista e voltagabbana. La storia insegna ahimé…

Poi abbiamo gli pseudointellettuali che si mostrano in questa inesorabile giostra del jet set politico intellettuale radical chic, con i loro avvilenti dibattiti trasmessi a più non posso dai media. La globalizzazione dell’imbecillità. Siamo messi male… Se poi da qui dentro speriamo in una sensibilizzazione da parte della gente comune (non faccio di tutta l’erba un fascio ovviamente) ai problemi del detenuto e al suo reinserimento sociale, entriamo nell’utopico. L’altro giorno casualmente mi sono sintonizzato su Pomeriggio 5 (condotto dal “PM” Barbara D’Urso) e mentre parlavano di un detenuto che aveva scontato oltre trent’anni di carcere ed era in semilibertà da poco, come prevede la legge, c’è stato un dissenso da parte degli spettatori che invece avrebbero voluto che fosse rimasto a marcire in galera… Questa è la mentalità, purtroppo. Specie se la cultura delle masse viene influenzata da certi modelli della nostra attuale società.

Un delinquente per l’85% degli italiani deve marcire  in prigione senza possibilità di reinserimento e benefici. Sta bene dove sta… diceva uno spettatore. Un grande legislatore una volta disse: meglio dieci colpevoli in libertà che solo un innocente in prigione. Bè, qui di colpevoli in libertà ce ne sono molti, appartenenti alle alte sfere  del potere e in galera vi sono troppi bravi ragazzi. Questa è la realtà del 2012, tutto il resto sono solo chiacchiere e fumo negli occhi verso i più. Dobbiamo riflettere sul fatto che forse qualcosa qui da noi non va… O forse chi muove i fili ha interesse al mantenimento di questo stato di cose? Sembra proprio di sì e allora continuiamo pure con l’emergenza che tanto gli conviene!

Questo è l’andazzo e non prevedo nulla di buono, solo chiacchiere e promesse al vento (i nuovi codici sono dieci anni che giacciono in un cassetto…). Popolo di inventori, viaggiatori, grandi dell’arte e nella musica, che brutta fine abbiamo fatto!

Giovanni Arcuri 

Settembre 2012

Quale emergenza… di Giovanni Arcuri (prima parte)

Giovanni Arcuri -di 54 anni e detenuto a Rebibbia- è uno degli amici del Blog emerso questo anno.

Ha scritto tre libri (di cui due pubblicati), è prossimo alla laurea in lettere, ed è divorato da una sete di conoscenza, che investe soprattutto argomenti di frontiera. 

Ha impersonato Cesare nel film dei fratelli Taviani, “Cesare deve morire”, vincitore dell’orso d’oro al festival di Berlino del 2012.

Oggi pubblico la prima parte di questo suo interessante testo sui temi dell’emergenza.

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Cari amici, ho sospeso per un paio di mesi l’invio di articoli per il fatto che ho dovuto completare la correzione del mio ultimo libro, Aspettando un nuovo giorno, che spero di pubblicare nel trascorso del 2013 e perché ho dovuto preparare degli esami per l’università. Ho riflettuto in questi giorni su alcune cose che mi accingo a proporvi.

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Quale emergenza?

Dobbiamo riconoscere che il nostro codice penale e di procedura penale del 1992 non era poi così male. Vuoi o non vuoi siamo stati la culla del diritto e la Storia del diritto romano non è stata cosa da poco…

Improvvisamente, ma non poi così tanto visto gli individui all’epoca del governo, sono arrivate le leggi emergenziali dovute alle stragi. Sono state promulgate leggi speciali mai viste prima con un automatico inasprimento delle pene per determinati reati e con immense difficoltà per ottenere i benefici di legge. Nei tribunali, dovuto all’arbitrarietà, sono state compiute forzature ideologiche e modifiche inammissibili in uno Stato di diritto. La politica ha invaso chiaramente il campo della giustizia e viceversa. 

Si è aperto quel famoso doppio binario che ha permesso valutazioni sui reati senza precedenti, con la conseguenza di uno stravolgimento delle pene e poi della stessa legge Gozzini che, dovuto al 4 bis, non viene applicata come dovrebbe inserendo paletti a volte insormontabili (se non attraverso un atto collaborativo 58 ter) sul piano dei benefici. I “mandarini” della giustizia dimenticano, e purtroppo nessuno glielo impedisce, che l’art. 30 ter sui permessi per esempio è una legge generale e l’art 4 bis, essendo una legge speciale, non dovrebbe e potrebbe prevaricarla. 

Avviene esattamente il contrario. Si parla di riforme, indulti e amnistie, misure alternative, applicazione dei parametri europei, ecc. Ma quella più importante che tornerebbe quantomeno a dare più dignità  e speranze al detenuto che vuole rifarsi una vita e non perdere gli affetti, sarebbe proprio  l’eliminazione del 4 bis. Si continua a parlare di emergenza, ma in uno Stato democratico ove si applicano le leggi e si amministra la giustizia diligentemente non dovrebbero esistere leggi di tale tipo.

Certamente possono accadere dei fatti che per un tempo limitato, giustificano il ricorso a provvedimenti particolari ma proprio per determinate situazioni lo Stato ha l’obbligo di studiare e approvare leggi volutamente repressive una volta superato il periodo. L’opinione pubblica (di tradizione forcaiola, ahimé..) ignora comunque, ed i media ne sono complici, che sono i gruppi cosiddetti mafiosi, di particolare spessore, ubicati nelle quattro regione calde del Sud Italia, hanno ormai perso quelle caratteristiche che fecero scattare la repressione e di conseguenza l’emergenza venti anni or sono.

I sistemi di controllo da parte dello Stato, la tecnologia acquisita, gli studi comparativi e l’informatizzazione, hanno trasformato  il lavoro di polizia e magistratura, permettendo un cambio sostanziale nelle investigazioni. Ciononostante, fa comodo a continuare a imbellettare quei metri emergenziali e inquisitori che hanno trascinato il nostro Paese nel non rispetto dello Stato di diritto. Un cittadino comune ha perso le garanzie sufficienti per essere giudicato in base alla legge per la quale resta innocente fino a prova contraria e fino all’ultimo grado di giudizio.

Purtroppo l’esito dei processi permette di asserire che con troppa facilità e su prove labili o su teoremi precostituiti si emettono mandati di cattura per i supposti reati di cui agli art. 74 del DPR 309/90 e per il 416 bis. Le pene sono le più alte d’Europa sempre dovute a questa fantomatica emergenza. L’ordinamento penitenziario non viene applicato  secondo i principi informatori delle norme vigenti, a causa delle inadeguate strutture penitenziarie nell’ottanta per cento delle carceri italiane.

Assistiamo a carriere costruite sull’onda dell’emergenza, del giustizialismo e della politica. Se si dovesse eliminare l’emergenza cosa accadrebbe? La risposta è semplice ed evidente: buona parte dei dipendenti del Ministero della Giustizia, dei lavoratori dei distinti Centri Penitenziari, gli addetti a scorte e traduzioni di detenuti di impiegati di tribunali e a vario titolo, ecc… forse sarebbero esuberanti e quindi dovrebbero essere riciclati per altre mansioni.

Questa è la realtà e con la crisi in cui si trova il Paese dubito che con la loro “alta professionalità” potrebbero trovare lavoro.

(FINE PRIMA PARTE)

Un ricordo indelebile (seconda parte).. di Giovanni Arcuri

Oggi pubblico la seconda  e  ultima parte del racconto di Giovanni Arcuri “Un ricordo indelebile”   (per la prima parte del racconto vai al link.. https://urladalsilenzio.wordpress.com/2012/07/14/un-ricordo-indelebile-prima-parte-di-giovanni-arcuri/).

Un racconto straordinario, che ha mietuto consensi e riconoscimenti come… il Premo Speciale della Giuria al concorso nazionale Goliarda Sapienza.. è stato pubblicato nel libro collettivo “Siamo noi, siamo in tanti”.. ha vinto il Premio Fregene anno 2012.

Un racconto basato su vicende realmente vissute da Giovanni Arcuri.. quando in Venezuela finì in un abominevole carcere di Caracas detto “Il Mostro”. 

Una rappresentazione vivida, efficace, potente.

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Arrivammo a Los Flores de Catia e perdemmo circa un’ora  per la prassi delle impronte digitali, le foto segnaletiche, la perquisizione corporale. Niente visita medica, niente domande. I miei due accompagnatori sparirono verso un reparto ai piani alti mentre io fui condotto sottoterra, un lungo corridoio semibuio che conduceva verso una porta tutta arruginita con una catena legata ad un lucchetto gigante, sembrava quasi una botola. Le due guardie l’aprirono e mi spinsero dentro, richiudendo velocemente  quasi fosse un lebbrosario.

<<Buona fortuna!>> mi gridarono dal corridoio, sghignazzando.

Mi ritrovai dietro la porta quasi allo scuro e davanti a me non c’era anima viva. Cercai a poco a poco di abituare gli occhi a quella condizione e mi accorsi che sotto di me iniziava una lunga scala da dove si intravedevano dei falò. Faceva freddo, mentre scendevo incrociavo persone che dormivano sulle scale, alcuni detenuti cucinavano con dei fornelli da campeggio, certi si riscaldavano al fuoco, altri mi guardavano come fossi un extraterrestre . Un odoro nauseabondo di immondizia misto ad urina mi investì immediatamente dopo avere percorso la prima rampa di scale.

Mi sembrava di vivere uno di quei film ambientati nel futuro dopo la catastrofe nucleare tipo Mad Max o giù di lì.

Quando finalmente giunsi alla fine della scala notai un numero indefinibile di persone che erano ammucchiate per terra e stavano ancora dormendo sdraiati sopra dei giornali. Tre detenuti armati  di coltelli mi circondarono e s’impossessarono della mia borsa. Prima che potessi cercare di reagire un detenuto mulatto alto quasi due metri si materializzò davanti a me con un machete in mano e mi chiese perché ero lì.

Gli dissi che ero in attesa di estradizione e e poi, per reazione a ciò che era avvenuto, gli chiesi se potevo recuperare la borsa. Sorrise come per dire di scordarmela e, senza troppi convenevoli, mi disse di seguirlo. Non credo di avere avuto altre alternative ma in quel momento probabilmente era la miglior opzione. Nel lungo e tortuoso cammino simile ad un inferno dantesco l’uomo di colore si faceva rispettare con il machete in mano ed una espressione che avrebbe scoraggiato chiunque avesse avuto cattive intenzioni. I detenuti avevano quasi tutti il telefono cellulare, uomini armati di pistole e coltelli circolavano tranquillamente ed altri facevano la fila per telefonare da un detenuto che vendeva le chiamate dal suo telefono mobile a chi ne era sprovvisto. Circolava denaro contante ed avvenivano loschi traffici ovunque. Più c’inoltravamo in quel labirinto  e più apparivano detenuti. Ci facemmo strada tra giocatori di parquès, domino e guaranà (quest’ultimo un gioco di dadi con sei numeri e un bicchiere) in una bolgia di grida indescrivibili. A quel punto, non mi sarei meravigliato se mi fossi imbattuto nel classico combattimento di galli. Ero in uno stato ipnotico. Alla fine arrivammo di fronte ad una cella dove tre uomini armati davanti alla porta avevano un luogo filo di collo da cui pendevano piccole borse di plastica contenenti polvere bianca, presumibilmente cocaina, che promuovevano e vendevano a gran voce, tipo mercato rionale, ed un magrissimo fumatore di crack, dopo avere pulito con certosina pazienza la carta stagnola della sua piccola pipa, estrasse dai polmoni tutto il fumo che aveva a lungo trattenuto e me lo soffiò in pieno volto. Prima che io potessi reagire la mia “guardia del corpo” gli diede uno spinto di una tale forza che l’ossuto tossicodipendente fece diverse capriole a terra prima di sbattere definitivamente la testa al muro.

<<E’ appena arrivato, è italiano, fatelo parla con El Santero>>, disse il gigante a uno dei “guardiani” fuori la porta. Uno di quelli con le bustine a tracolla entrò ed avvisò l’uomo del mio arrivo.

Prima che potessi dire una sola parola mi ritrovai spintonato all’interno della cella mentre la porta si chiuse contemporaneamente alle mie spalle.

Una voce autoritaria da dentro gridò di non fare passare nessuno fino a nuovo ordine.

La cella era sui sei metri per quattro, alla fine della stanza c’era un lettone immenso molto alto, circondato da tre ventilatori che giravano a media velocità. Sul letto era appoggiato un PC d’ultima generazione collegato ad un cellulare. Alla destra del cuscino c’era una pistola a tamburo calibro 38 a canna corta, probabilmente Smith and Wesson.

Un uomo magro, tutto vestito di bianco e pieno d’oro, con un altro cellulare in mano, mi sorrise da dietro un tavolo e mi venne incontro. Un altare pieno di statue di santi, candele, sigari e qualche frutto in offerta, era situato alla mia destra.

Un televisore con videoregistratore era appoggiato ad uno sgabello e senza volume proiettava un film pornografico.

Sul tavolo erano ammucchiati fasci di banconote e borse di cocaina uguali a quelle che avevo visto appese al collo degli uomini fuori dalla sua cella; c’erano anche dei contenitori di vitamina C pieni di Crack.

<<Sei stato fortunato… il mio gigante mulatto ti ha visto prima dei piranas >>.

<<Chi sono i piranas?>> chiesi sconcertato.

<<Sono i detenuti che vivono sotto le scale dormendo per terra, si nutrono di qualsiasi schifezza, prima ti uccidono e poi ti rubano tutto. A volte si ammazzano tra di loro per dividersi le cose che rubano ai malcapitati. Non sono degli esseri umani. Io li controllo perché non hanno le armi ad eccezione di qualche coltello. Probabilmente è ancora presto e la tua presenza è stata notata. Il mio uomo ti ha visto prima di loro e dovrai fargli un regalo quando sarà..>> disse l’uomo vestito di bianco.

<<Mi hanno rubato la borsa appena sono sceso dalle scale>>.

<<Dimenticala. Come avrai capito nel tragitto per arrivare fin qui, questo luogo ha un tasso di mortalità molto alto e chi non è protetto rischia di lasciarci le “penne” nelle prime ventiquattro ore.

Tu sai chi sono?>>.. mi chiese l’uomo squadrandomi da capo a piedi.

<<No, mi dispiace>>.

In seguito seppi che il  Santero  era un personaggio mitico delle carceri venezuelane.

Era sopravvissuto a molteplici cambi di governo, così si chiamano i colpi di stato interni, che il più delle volte lasciavano dozzine di morti sul terreno. Dagli omicidi con armi da fuoco allo smembramento degli arti con il machete o con il medio brazo, un coltello di circa sessanta centimetri costruito artigianalmente dagli stessi detenuti.

Quotidianamente avvenivano combattimenti degni del Colosseo per il controllo del commercio della droga e delle armi fino ai motivi più futili. La vita umana non aveva alcun valore.

Il Santero era un sopravvissuto.

Si presentò e poi pacatamente mi disse:

<<Bene, non fartene una colpa, non appartieni a questo mondo>>, mi disse l’uomo guardandomi fisso negli occhi.

<<Di che cosa ti occupi?>>

<<Lavoro nel campo del gioco, sono socio di un casinò nell’Oriente del Paese>> risposi titubante e realmente impaurito.

<<E come mai ti trovi qui?>>

Gli spiegai brevemente la faccenda e lui mi disse che in Venezuela con il denaro tutto si poteva risolvere, però nel frattempo dovevo pensare alla mia sopravvivenza interna per uscire vivo quando fosse arrivato il momento.

<<Io posso darti la sicurezza interna, una cella con un materasso, un piccolo televisore e un telefono cellulare per chiamare la tua famiglia e l’avvocato. E cosa più importante: la garanzia che nessuno ti farà del male. In cambio avrei bisogno, diciamo così, di una “collaborazione”… Ho molte spese, le armi, la droga che mi arriva tutte le settimane dalla Colombia, contante per pagare le guardie che mi portano i cellulari, il cibo buono, ecc.ecc. Diciamo che mi accontenterei di mezzo milione di bolivares (all’epoca circa ottomila dollari). Credo che la tua vita li valga, o no?>>

Capii che non avevo scelta. Se volevo sopravvivere nel vero senso della parola avrei dovuto versare la “collaborazione”. Senza aggiungere altro mi diede un telefono cellulare dal quale chiamai mia moglie ala quale spiegai tutto e le dissi di venire a colloquio dopo due giorni passando prima dall’avvocato del Santero lasciando i soldi pattuiti.

Mi fornì quello che aveva promesso e non uscii dalla mia cella per tutto il giorno.

Ero rimasto realmente scioccato dal luogo dove mi trovavo. Un inferno, nessuno in Europa mi avrebbe creduto.

Verso sera si presentò il gigante mulatto con una mia maglietta, un paio di mutande e l’accapatoio che aveva recuperato dai piranasLo ringraziai di tutto e scoprii che quell’omone in fondo era un buono. Gli piaceva giocare a scacchi e trascorrevamo diverse ore nella mia cella dove imparai molte cose di quel suo mondo. Mi raccontò che il Santero comandava la Maxima da alcuni anni e a suo modo aveva dettato regole che davano un certo ordine al disordine. A parte i piranas ognuno aveva il suo ruolo. C’era chi preparava da mangiare  e vendeva i pasti per gli altri detenuti, c’era chi vendeva la marjiuana, chi le telefonate dal cellulare, ecc. Lo spaccio della cocaina era deputato interamente al Santero che aveva una decina di scagnozzi ed altri che potevano arrivare negli altri padiglioni. Una parte del reparto era riservata agli evangelici che non potevano entrare in nessuna attività, ma non potevano essere toccati. Il gigante mi raccontò che una volta trovarono un evangelico che fumava marjiuana e senza pensarci due volte, avedno disobbedito alle regole, anche per dare un esempio, lo uccisero davanti a tutta la popolazione detenuta. La mattina, quando veniva la conta, lasciavano davanti alla porta d’ingresso gli eventuali morti e, come se niente fosse accaduto, il personale preposto li avvolgeva in teli neri e portava via i copri. Se i morti erano più di uno a volte tornavano in forze e rompevano tutto dando bastonate a chiunque si parasse davanti il loro cammino. Probabilmente il Santero aveva un accordo anche con la Guardia Nazionale che ungeva abbondantemente affinché lo lasciassero abbastanza in pace.

I colloqui avvenivano lì dentro, poteva entrare chiunque senza necessità di avere un rapporto di parentela. Ognuno riceveva nella sua cella e chi non l’aveva affittava per un breve tempo quella di qualcun altro per potere stare con la propria donna. Una bolgia incredibile. Dopo il primo colloquio con mi a moglie, le dissi di non venire più. Rimase letteralmente sciocccaa anche se il giorno dei colloqui l’atmosfera era completamente diversa perché vigeva la legge del Santero: massimo rispetto e zero litigi. Dopo le ore 15:00 poteva avvenire di tutto; prima chi sgarrava avrebbe pagato con la vita perché il colloquio era sacro e, cosa ancora più incredibile, molti acquirenti di cocaina preferivano venire ad acquistare in carcere invece che fuori. Sia per qualità sia per prezzo. Molti familiari dei detenuti si rifornivano al Santero che riusciva a vedere oltre un chilogrammo per ogni giorno di colloquio.

I colloqui avvenivano tre volte alla settimana, un giro esorbitante tenendo presente da dove veniva gestito…

Un mese dopo il mio arresto le autorità decisero finalmente di demolire il carcere di Los Flores de Catia e così ci trasferirono tutti in altre carceri. La notizia della demolizione fece il giro del mondo e così furono riportate anche le notizie  circa gli orrori avvenuti  all’interno nel corso degli anni.

Io mi trovai nella lista del carcere al centro della città, il mio avvocato mi spiegò che essendoci una procedura d’estradizione non potette fare nulla per mandarmi nel carcere tranquillo di cui mi aveva parlato, sarebbe stato un precedente e i media avrebbero messo in risalto la cosa esponendo i corrotti.

Il Santero  lo inviarono in un brutto carcere in un’altra regione, però prima della separazione mi diede un biglietto di raccomandazione per un suo amico che comandava un padiglione del carcere dove mi avevano destinato. 

Provenendo dal “Mostro” gli altri detenuti ci guardavano con rispetto e con l’aiuto del gigantone mulatto riuscimmo a farci assegnare nel padiglione dell’amico del Santero.

L’ambiente era molto più umano, più luminoso. C’erano tavoli da ping-pong, sale per giocare a carte e scacchi, un’aria per camminare, cosa che non esisteva nella Maxima da dove venivo.

Mi guardai allo specchio della mia nuova cella, ero giallo. Oltre un mese senza prendere aria, sottoterra…

Capii che in questo carcere avrei potuto dedicarmi interamente alla mia difesa anche se ovviamente non avrei potuto mai abbassare la guardia visto “l’ambientino” che mi circondava. Ogni tanto avveniva qualche combattimento con il coltello con tanto di padrini che misuravano la lunghezza delle lame che dovevano essere uguali per entrambi. Ogni tanto ci scappava il morto o un ferito grave che poi era costretto ad abbandonare il reparto o trasferirsi altrove perché indesiderato.

Il mio reparto era denominato, artesania perché si costruivano vari oggetti che poi si rivendevano ai familiari. Dai peluche alle barche fatte con gli stuzzicadenti, delle vere opere d’arte.

Si giocava  forte i giorni delle corse dei cavalli, e puntavano anche sul baseball che è lo sport nazionale. L’amico del Santero  gestiva le scommesse e mi accolse bene, non dovetti sborsare nulla, gli regalai un cellulare ma tenendo presente come fui trattato era il minimo dovuto.

La mia permanenza nel carcere venezuelano durò oltre un anno.

Alla fine la Corte Suprema di Giustizia rigettò la richiesta di estradizione del governo italiano perché non era sufficiente di un pentito per estradare un cittadino residente.

Ritrovai la libertà, ma la mia vita dopo un’esperienza di quel genere non fu più la stessa. Chi potrebbe credere nel terzo millennio all’esistenza di situazioni del genere? Un film dell’orrore.

Solo attraverso le conoscenze e le esperienze più disparate si può avere una visione chiara e completa della vita ma a volte certe esperienze possono portarci a toccare la follia. L’uomo è un animale che riesce a adattarsi ad ogni situazione ma alcune di queste a volte lasciano tracce indelebili.

Alla fine del 2001 fui costretto a tornare in Italia per motivi familiari e mi arrestarono per quegli stessi fatti per cui avevano chiesto l’estradizione. Tuttora mi trovo detenuto in espiazione pena.

Ogni tanto mi sveglio nella notte e nonostante siano passati così tanti anni ho ancora nelle orecchie quel chiasso e quelle grida che mi rimbombavano nelle viscere all’interno del “Mostro” e rivedo il dolore, i morti, la sofferenza e la violenza espressa alla massima potenza e ringrazio il Signore di essere ancora per poterlo raccontare.

Un ricordo indelebile (prima parte).. di Giovanni Arcuri

Giovanni Arcuri, detenuto a Rebibbia, è una di quelle persone che ha fatto del tempo e della caduta una occasione per crescere, studiare, aprirsi alla conoscenza, esprimersi e comunicare.

E’ uno degli amici del Blog emerso quest’anno. Ha 54 anni, è quasi laureato in lettere, ed ha scritto tre libri (di cui due pubblicati).

Il racconto di cui oggi pubblico la prima parte è un racconto straordinario.

Un racconto che SI BASA SU ESPERIENZE REALMENTE VISSUTE DA GIOVANNI, che nell’arco del suo percorso ha conosciuto anche il mondo carcerario del Sudamerica. In molti dei contesti latinoamericani il sistema carcerario è molto diverso da quello europeo. Naturalmente tutti noi sappiamo che la situazione delle carceri europee è spesso drammatica. Ma la realtà di alcuni luoghi del Sudamerica (e non solo) è diversissima. Ad esempio, nel modello europeo, specie in Paesi come l’Italia, la tendenza è quella a tenere il più possibile il detenuto in cella e  regolare rigidissimamente le sue uscite fuori cella. Nel contesto di certi carceri sudamericani, invece, gran parte dei detenuti si trovano liberi di scorrazzare per ampie zone del carcere, in una sorta di città sotterranea, terra di nessuno, dove avviene di tutto.. regolamenti di conti per bande con conteggio di morti crescenti, violenze, abusi sessuali, vendita di droga e di armi.

In un certo senso può sembrare un mondo più libero, ma è anche un mondo carcerario dove se non hai le giuste protezioni, puoi essere completamente schiavizzato da altri detenuti, abusato, e ucciso in poco tempo. Ci sono carceri addirittura gestiti dalle stesse bande di detenuti.

Comunque, è un mondo complesso per descriverlo in una semplice premessa, e ci sono tante variabili e considerazioni da fare.. ma era giusto per dire che certe carceri del Sudamerica sono tutto un altro mondo rispetto al modo in cui noi concepiamo e conosciamo il carcere.

Vi lascio ora alla prima parte di questo straordinario racconto di Giovanni Arcuri.

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 UN RICORDO INDELEBILE

Quel lunedì mattina avrai potuto dormire un po’ di più perché l’appuntamento con il Direttore della mia banca era stato fissato per le ore 11.

La notte precedente era piovuto e la sensazione nel rimanere nel letto derivante  dall’aria fresca proveniente dalla finestra socchiusa era ancora più piacevole.

Mia moglie si era alzata  da poco e stava preparandomi il caffè, mentre io ero rimasto  a poltroneggiare nel grande lettone king size.  Erano soltanto le nove, avrei avuto tutto il tempo per farmi la barna con cura e preparare le carte da portare in banca. Da alcuni anni mi ero trasferito dagli Stati Uniti in Venezuela dove avevo la comproprietà di un casinò in una bella e ridente cittatdina sul mar dei Caraibi nell’oriente del Paese.  Le cose andavano abbastanza bene e mia figlia  aveva da poco compiuto due anni. Dovevo andare in banca per aprire una libea di credito per un brogetto di una sala bingo vicina il casinò. Mia moglie entrò con il caffè e i croassant radiosa.

<<Il signore è servito ma non ci si abitui..>> disse sorridente.

Avevamo deciso di comune accordo di vivere in un paese tropicale di fronte al mare dove poter crescere nostra figlia  senza stress e condizionamenti. La nostr vita procedeva tranquillamente, fino a quel giorno…

Ad un tratto, mentre sorseggiavo il caffè, ptato dalla brezza, debole come il ronzio di un insetto in lontananza, giunse il motore di un elicottero, che poco a poco si fece sempre più assordante.

Uscimmo in giardino per vedere cosa stava succedento e in quel preciso istante osservammo calarsi dal grande elicottero alcuni uomini con delle funi tutti vestiti di nero. Sembrava di assistere a un film dei corpi speciali in missione in qualche paese sperduto. In meno di venti secondi eravamo circonddati e sotto la minaccia delle armi.

Rimanemmo impietriti in attesa di qualche segnale.

Un uomo altro con una tuta mimetica grigia e un mini Uzi a tracolla si presentò come il direttore dell’operazione e mi disse di fornirgli una carta d’identità. Terminati per così dire “i convenevoli” l’uomo disse di appartenere al grupo BAE e di avere ricevuto l’ordine di arrestarmi dal comando generale dovuto ad una richiesta di estradizione da parte del governo italiano; mi mostrò i documenti che lo certificavano e si comportò molto educatamente. Il gruppo BAE era il fiore all’occhiello delle forze armate venezuelane ed era specializzato per operazioni ad alto rischio. Non riuscivano nemmeno loro a capire perché erano stati utilizzati per eseguire un ordine di arresto presso una casa con due coniugi, una bambina di due anni i due anni ed una donna di servizio che tra l’altro era svenuta per lo spavento.

Non c’erano guardie del corpo, non c’erano armi a parte il fucile da caccia con il suo regolare permesso, niente che avrebbe giustificato un’operazione di quella portata. In ogni caso gli ordini erano ordini e dovevano essere eseguiti.

Finito il verbale e la perquisizione di routine cercai di capirci di più ma nemmeno loro sapevano esattamente quali erano le ragioni che avevano portato alla richiesta d’arresto in attesa di estradizione, me lo avrebbero notificato a Caracas. Mi fecero chiamare il mio avvocato nella capitale venezuelana che mi disse di restare calmo e che in serata sarebbe venuto nella centrale venezuelana, che mi disse di restare calmno e che in serata sarebbe venuto nella centrale di polizia dove mi avrebbero portato. Mi diedero dieci minuti per preparare una borsa con l’occorrente e salutare mia moglie e mia figlia.

La bambina fortunatamente non si era svegliata nonostante il trambusto e così la lasciai dormire per evitare che potesse piangere vedendomi andare via. La baciai sulla fronte e accarezzai la manina che abbracciava la sua bambola preferita. Mia moglie in lacrime  mi disse che avrebbe preso il primo aereo  all’indomani ma io le consigliai di aspettare istruzioni da parte del mio avvocato e a malincuore accettò

Guardai sparire la mia casa dall’alto dell’elicottero quando non erano neppure le 10.

Tutto era avvenuto in poco meno di un’ora. La mia vita era stata stravolta in un batter d’occhio.

Purtroppo questo era solo l’inizio.

Quando arrivai nella sede della polizia giudiziaria di Caracas c’era già il mio avvocato ad attendermi e mi fecero parlare con lui per circa mezz’ora. La richiesta proveniva dalla procura giudiziaria di Caracas c’era già il mio avvocato ad attendermi e mi fecero parlare con lui per circa mezz’ora. La richiesta proveniva dalla Procura di Roma per reati commessi agli inizi degli anni novanta riguardo un traffico di stupefacenti, nel caso di specie cocaina. Un funzionario dell’aeroporto di Fiumicino di Roma era stato arrestato mentre portava fuori dall’aeroscalo una valigia piena di droga e si era subito pentito rivelando altre malefatte avvenute molti anni prima.

Mi ritenevano l’intermediario d’ipotetiche valigie spedite anni prima e mai sequestrate. La parola del pentito autorizzava un mandato d’arresto internazionale e si sarebbe applicata la procedura per l’estradizione.

<<Ci opporremo, non possono autorizzare un’estradizione verso un cittadino residente che lavora onestamente e ha alle sue dipendenze più di cinquanta persone solo sulla base di una dichiarazione a posteriori di un’inattendibile individuo!>> mi disse l’avvocato Gonzales facendomi presente che il codice anglo sassone su cui si basa la giustizia venezuelana non consentiva iniziative di questo genere e che la Corte Suprema alla fine ci avrebbe dato ragione.

<<Quanto potrebbe durare questa battaglia?>> gi chiesi.

<<La procedura di opposizione non è così facile, mesi, forse un anno. Ora dobbiamo cercare di evitare che ti mettano in un carcere ad alto rischio, qui non so se lo sai, ma la galera è un po’ diversa dall’Europa>>.

<<In che senso?>> ribadii preoccupato.

<<Nel senso che si rischia la vita quotidianamente, è un mondo a parte. Ogni giorno ci sono morti e feriti, le carceri sono in mano ai detenuti che sono armati fino ai denti>>.

<<Stai scherzando?>>

<<No, sto cercando di prepararti  per evitare che tu possa trovarti in situazioni spiacevoli Cercherà di farti trasferire in un carcere tranquillo a un’ora di macchina da Caracas. E’ quello dove portano i politici corrotti ed è l’unico decente…>>.

Continuammo a parlare circa la strategia difensiva e disse che mi avrebbero fatto avere copia del mandato di arresto internazionale  nei giorni seguenti. Poi mi abbracciò dandomi coraggio e sparì  nel grigio e freddo corridoio pieno di agenti della polizia giudiziaria.

Mi portarono in una camera di sicurezza senza bagno dove c’era giaciglio di cemento e mi dissero che nell’arco di due giorni mi avrebbero trasferito in carcere. Non dissero quale.

Quella notte non riuscii a chiudere occhio. La mia mente tornò a un’estate di alcuni anni prima quando mi trovavo in Italia per visitare i miei genitori e conobbi durante la cena un impiegato dell’aeroporto di Fiumicino in confidenza e avendo saputo che vivevo in Sud America mi disse di essere disponibile per fare passare qualche valigia di cocaina in quanto il suo ruolo gli permetteva di non essere controllato. Bisognava solo descrivergli la valigia e dargli il numero dello scontrino. Lui l’avrebbe ritirata dal tapis rulant prima delle ispezioni e poi portata fuori con calma.

In Sud America innumerevoli volte mi era stato proposto, nell’eventualità avessi conosciuto qualcuno come lui, la possibilità di inviare valigie con stupefacente in quanto i trafficanti avevano il controllo dell’aeroporto  di partenza e la valigia non sarebbe stata controllata. Mancava solo il contatto all’arrivo in Europa. Io avrei dovuto solo fare da trait d’union, in pratica l’intermediario, e avrei riscosso una percentuale sugli utili. E così fu. Lavorarono una stagione e poi ognuno per la sua strada. Il funzionario però preso dall’ingordigia continuò a lavorare con altra gente fino al suo arresto e quando avvenne raccontò la sua epopea fin dalle origini  con dovizia di particolari.

Fece i nomi di tutti quelli con cui aveva lavorato.

Questa era la situazione anche se nella realtà non c’erano prove ad esclusione della parola del pentito.

Avrei lottato per evitare l’estradizione, ero cosciente di avere commesso una cosa illegale perché in quel momento avevo delle difficoltà economiche  ma fu una cosa sporadica, non da giustificare ovviamente, ma erano passati tanti anni ed io non ci pensavo più. Non avrei pensato potesse succedere una cosa così. Purtroppo la giustizia è lenta ma arriva sempre. Ora mi trovavo in una cella puzzolente in attesa di essere trasferito in un carcere con le prospettive che il mio avvocato mi aveva appena illustrato.

Il giorno dopo venne un funzionario dell’Ambasciata Italiana, dall’ufficio affari penali, e mi spiegò la situazione. Loro non potevano fare nulla per aiutarmi anche se sapevano che io lavoravo regolarmente in Venezuela a diversi anni e non avevo mai avuto problemi di nessun tipo come risultava dal computer del Ministero degli Interni venezuelano e da quello della polizia. Mi lasciò il suo biglietto da visita. La sua visita in fondo era solo un atto dovuto, una formalità. La mia tensione in quel preciso momento era più concentrata su dove mi avrebbero portato perché sapevo che la mia vita sarebbe stata a rischio. La libertà, la lotta per non essere estradato venivano dopo. Avevo davanti a me il volto i mia figlia di due anni e quello di mia moglie in lacrime che già aveva chiamato due volte per sapere come stavo.

Tutti i giorni sia le televisioni sia i giornali riportavano notizie circa le vere e proprie guerre che avvenivano in tutte le carceri venezuelane che si trovavano nel caos più totale.

In particolare il carcere de Los flores de Catia di Caracas era ritenuto uno dei peggiori di tutta l’America Latina. Da anni dovevano sopprimerlo con la dinamite in quanto la struttura era fatiscente e di gran lunga sotto il livello del rispetto dei diritti umani. Ce n’era un altro nella stessa città più moderno ma anche lì avvenivano fatti inenarrabili. Los flores era comunque qualcosa di veramente terribile e unico. Avevo visto una volta una trasmissione in cui un giornalista era riuscito ad entrarci per un’ora e quello che vide lo lasciò sconvolto. Centinaia di persone ammassate in stanze senza letti, dormendo sui giornali, tutti armati di coltelli e pistole. La Guardia Nazionale entrava solo la mattina alle sette per la conta e poi la sera alle otto. Il carcere era gestito dai detenuti che scorrazzavano  da una parte e dall’altra e imbastivano guerre interne per il controllo dei traffici di droga e di armi.

Una terra di nessuno dove regnava la legge del più forte. Al solo pensiero che sari potuto capitare lì mi veniva la pelle d’oca.

Passò un altro giorno senza notizie, poi il terzo giorno all’alba mi svegliarono di soprassalto e mi dissero di prendere la mia roba, mi stavano trasferendo.

Mi spinsero in malo modo su un blindato insieme ad altri due detenuti e presero la superstrada che conduce all’aeroporto. Il carcere dei colletti bianchi  era dalla parte opposta, quindi dedussi che o mi stavano portando all’aeroporto o stavamo andando verso l’aeroporto o stavamo andando verso il famigerato Flores de Catia.

Il miei due compagni di viaggio erano esperti e mi dissero subito che stavamo andando proprio lì.

<<Vamos pà el Monstruo…>> dissero  seri e impensieriti.

Il “Mostro” lo chiamavano e non era certo un caso. Li sentii complottare su come si sarebbero mossi per farsi inserire in un padiglione dove avevano amici.

Cominciai a fare domande per cercare di capire come meglio muovermi una volta lì.

<<Tu sei straniero in estradizione, ti porteranno a la Maxima…>>

<<Cos’è la Maxima?>> chiesi preoccupato.

<<E’ il reparto di massima sicurezza, ci sono quelli richiesti in estradizione e i delinquenti più pericolosi, i cosiddetti malaconducta. E’ il peggiore, se non conosci nessuno è dura>>.

Nella mia mente cominciai  a produrre uno stato d’allerta massima, ma sapevo che erano realtà al di là della mia immaginazione. L’unico aspetto meno negativo era che parlavo la lingua perfettamente e non mi avrebbero trattato come uno straniero, un gringo , come dicevano loro in senso dispregiativo, quando si rivolgevano ad uno straniero per sfotterlo o per fregarlo.

(FINE PRIMA PARTE)

Il controllo… di Giovanni Arcuri

Giovanni Arcuri -di 54 anni e detenuto a Rebibbia- è uno degli amici del Blog emerso questo anni.

Ha scritto tre libri (di cui due pubblicati), è prossimo alla laurea in legge, ed è divorato da una sete di conoscenza, che investe soprattutto argomenti di frontiera (ad esempio vedi il testo sul governo segreto.. https://urladalsilenzio.wordpress.com/2012/04/03/il-governo-segreto-di-giovanni-arcuri-prima-parte/ e https://urladalsilenzio.wordpress.com/2012/04/15/il-governo-segreto-di-giovanni-arcuri-seconda-parte/).

Oggi pubblico questo suo inquietante pezzo sui sistemi di controllo tecnologico, in buona parte ignorati in tutte le loro dinamiche e nei loro possibili sviluppi.

Negli ultimi cinquanta anni abbiamo assistito ad una rivoluzione totale nel campo delle informazioni e nello sviluppo delle tecnologie. In quest’ultimi due anni poi siamo passati ai libri elettronici leggibili con speciali tavolette e telefonini che hanno centinaia di applicazioni.

Ipad che funzionano come dei veri e propri computer super veloce e con funzioni inimmaginabili fino a poco tempo fa Ipod dove puoi immagazzinare ore e ore di musica. Smartphone che utilizzano la telefonata come extrema ratio per tutte le altre funzioni di cui dispongono, ecc. ecc.

Con lo sviluppo delle tecnologie per il trattamento delle informazioni e della telematica, la questione (quella del rapporto tra istituzioni economiche e istanze di Stato) rischia di divenire ancora più spinosa.

Ammettiamo per esempio che un’impresa come la IBM sia autorizzata ad occupare un corridoio orbitale attorno alla terra per piazzarvi dei satelliti di comunicazione e/o delle banche dati. Chi vi avrà accesso? Chi deciderà quali siano i canali e i dati riservati? Lo Stato? Oppure sarà un utente come tutti gli altri? Nascono in tal modo nuovi problemi giuridici ed attraverso di essi si pone la domanda: chi saprà? 

Torniamo alle nostre vite. Con Instantgram ci si fotografa insieme e subito dopo volendo siamo già su Facebook, così ci vedono gli altri. Vediamo una donna che ci piace la “tagghiamo”. Negli sms per chi è molto “addetto ai lavori” ci vorrebbe un vocabolario speciale per tradurli. I termini che vengono usati nel mondo virtuale sono alquanto bislacchi… Facciamo un video dal nostro Ipad della cena a casa con gli amici e la passiamo in rete. La condivisione universale delle nostre vite su Internet è il pane quotidiano del terzo millennio. Attraverso le applicazioni tutti i nostri interessi personali, commerciali, di consumo, professionali, sessuali, sono a disposizione di chiunque, anche senza il vostro consenso… Tutto quello che facciamo nell’era di Internet lascia una traccia elettronica alle spalle, è inutile negarlo. Dalla prima telefonata che facciamo al mattino, mentre controlliamo la nostra posta elettronica, quando entriamo in un supermercato le telecamere ci riprendono, al pagare il conto con la nostra carta di credito lasciamo delle tracce ineliminabili e nel momento stesso che usiamo il computer siamo  in un circuito di controllo. Se fino a cent’anni fa chi controllava i mari era il padrone del mondo, oggi lo è chi controlla l’etere.

L’ultimo prodotto dell’amministrazione americana si chiama T.I.A., che tradotto letteralmente significa consapevolezza totale delle informazioni.

I singoli cittadini vengano schedati ed ogni informazione relativa alla loro vita ed alle loro transazioni vengano immagazzinata.

Il progetto di controllo più vasto mai immaginato dal’uomo ad aggiungersi al G.I.G., una rete informatica globale (global information grid), chiamata “L’occhio di Dio”, in grado di criptare dati e connessioni via satellite.

Potranno quindi raccogliere i dati di chiunque senza rendere conto a nessuno dei motivi dell’azione di sorveglianza. I 15 router più importanti del mondo, ossia i centri si smistamento del traffico internet, potrebbero venire attaccati dagli hacker o da terroristi informatici e creare dei blackout mettendo in ginocchio il mondo. Se mandano in tilt il web, si bloccherebbero i gangli della società contemporanea, le borse, le comunicazioni, le informazioni, i servizi, i trasporti, sarebbe il caos. Per evitare qualsiasi interferenza stanno costituendo un reparto di élite in grado di gestire attacchi digitali, il Cybercommand, una struttura di mille uomini scelti con 3,2 miliardi di dollari in budget. Il loro compito è quello di bloccare, ma in casi estremi anche di attaccare i nemici. Il reparto si trova a Fort Meade, ed è comandato dal generale Keith B. Alexander dell’N.S.A., Sicurezza Nazionale. Esiste una società  informatica, la Seisint Corp., che attraverso un servizio di base di dati commerciali chiamato Account permette di controllare più di 20.000 milioni di registri nel mondo. Dall’ultimo trasloco dell’utente ai suoi movimenti bancari e addirittura in grado di ritrovare dati vecchi di trenta anni sugli eventuali ex domicili. Il direttore di questo mostro tecnologico è Reed Elsevier.

Con il continuo aumento dei dai commerciali e scientifici, la potenza del calcolo diventa una risorsa strategia, diventa capitale, potere.

Oggi ci sono soltanto cinque computer sulla terra: Google, Yahoo, Microsoft, Ibm, Amazon.

Chi ha il controllo di tutto questo “circo” ha informatori che lavorano  per loro all’interno di ognuna di queste gigantesche corporation, lavorano dieci ore al giorno a costruire algoritmi di ricerca: messe insieme tutte queste informazioni, con l’apporto della supertecnologia dell’NSA, formano il computer più potente della terra. Questa rete di computer si chiama Cloud, la nuvola. Le macchine che la fanno funzionare sono sparse in diversi luoghi del pianeta. Gli altri supercomputer come il Roadrunner di Los Alamos con una velocità di calcolo di 1105 teraFlops e il Jaguar di Oak Ridge sono controllati da loro. Stiamo parlando di milioni di miliardi di operazioni al secondo. Seymur Cray, titolare della Cray Inc., ha fatto la storia dei supercomputer.

In una frazione di secondo hanno i dati di chiunque.

L’ultima notizia che ho avuto a canali riservati è che hanno già messo in  acqua un sottomarino supertecnologico in grado di intercettare tutti i meccanismi che passano per fibra ottica subacquea.

Esiste un isolotto  a milleseicento chilometri dalle coste africane, tra il Brasile e l’Angola, ed è una loro base per il controllo delle comunicazioni. La base è gestita da uomini dell’ GCHQ, il servizio segreto britannico depurato allo spionaggio elettronico e da altri specialisti del settore. Echelon ha lì il suo cuore. Attualmente il loro interesse si sta spostando dalle comunicazioni satellitari ai cavi sottomarini a cuore. Attualmente il loro interesse si era spostando dalle comunicazioni satellitari ai cavi sottomarini a fibre ottiche, è il futuro che molti ignorano. Stanno facendo accordi con le più grandi compagnie di telecomunicazioni per avere accesso ai segnali, hanno uomini infiniti ovunque. E’ molto difficile riuscire a infiltrarsi nei cavi di fibra ottica sottomarini: il posto migliore per metterli sotto controllo è alla base del cavo, dove cioè arrivano a terra, e questo significa ottenere per forza l’aiuto segreto degli uomini chiave delle compagnie di comunicazione. Alla fine potranno intercettare i segnali convenuti in microonde, ma nella maggior parte dei casi continuano verso altri luoghi tramite cavi di fibra ottica sotterranei.

Prima dell’11 settembre negli Stati Uniti tutte le informazioni erano protette dal Quarto emendamento e per ottenerle il governo doveva dimostrare che queste avrebbero potuto aiutare a risolvere o a prevenire un crimine. La Corte Supremo ha invece stabilito che quando un cittadino rilascia volontariamente le sue informazioni  ad un’entità commerciale, queste diventano automaticamente di dominio pubblico e possono essere raccolte dal governo senza bisogno di alcuna autorizzazione speciale. Questo modus operandi si è esteso un po’ a tutti gli Stati legati agli USA ed i risultati di tutto ciò li vediamo quotidianamente. Giuridicamente ci troviamo di fronte ad uno scontro tra governi locali, con il loro potere  di sovranità territoriale e il mondo globalizzato del web. A mio avviso, mettere in discussione il meccanismo stesso d’intrusione nella privacy del cittadino. La libertà individuale  viene così ridotta, la semplice azione di sviluppare tecnologia per raccogliere, catalogare e utilizzare  dati personali è già una violazione della Costituzione e dello stesso Quarto emendamento americani. Il Wall Street Journal di pochi giorni fa ha scritto che secondo una loro inchiesta Facebook vende alle aziende i profili degli utenti, i loro interessi e le propensioni al consumo. Spero non sia vero.

Una cosa è condividere i dati con la banca che garantisce, per esempio, la nostra carta di credito, un’altra è offrire gli stessi dati al governo (o a chi per lui) che può usarli per intrufolarsi  nella tua vita privata. Qui si parla praticamente di tutti i cittadini, gente che per la stragrande maggioranza non conduce alcuna attività criminale o terroristica. In queste settimane alcuni governi hanno protestato proprio per l’uso delle informazioni archiviate dai satelliti di comunicazione che, a dire di alcune importanti testate giornalistiche, hanno favorito certe multinazionali statunitensi, registrando comunicazioni riservate tra importanti uomini di affari di diverse nazioni.

A questo punto, chi ha accesso a quelle informazioni potrebbe favorire questo o quel gruppo economico a discapito di altri. Potrebbe crearsi un caos senza precedenti.

Lo Stato si troverebbe in una posizione anomala, in quanto fautore del controllo e primo indiziato di eventuali abusi, ma anche possibile ignaro se le persone preposte non siano degli individui al di sopra delle parti e semplici impiegati.

Purtroppo il campo è troppo delicato e la linea che divide il legale dall’illegale è fin troppo sottile. Wikiliks docet.

La nostra vita privata non esiste, il paradosso è che oggi come oggi averla significherebbe non esistere. Bisogna esserci, lasciare quotidiana traccia di sé, il resto non ha più importanza. Tra Twitter, Facebook e altri social network, dove tra follow e followers il mondo si nutre di noi.

Dulcis in fundo: prossimamente è prevista la messa a punto di un software in grado di passare a rassegna mezzo milione di siti web al giorno, scartabellando fra blog, post, tweet, forum, video e foto pubblicati su Youtube e altro. A ogni mezzo di informazione viene assegnato un giudizio, a ogni autore o conversazione viene attribuito un peso in base all’influenza esercitata. Queste informazioni, anche se sono disponibili, vengono sommerse dal diluvio informatico e verranno supervisionate attraverso uno strumento molto sofisticato che si chiama Visible Techonologies. C’è poco da stare tranquilli.

La trasformazione della natura del sapere può dunque generare un effetto di reatroazione nei confronti dei poteri pubblici  stabiliti tali da costringerli a riconsiderare  loro rapporti di diritto e di fatto con le grandi imprese o qualsiasi multinazionale, e più in generale con la società civile.

Sul piano individuale, a meno di scegliere di diventare eremiti, c’è ben poco da fare.

Giovanni Arcuri

maggio 2012

La tribù… di Giovanni Arcuri

Giovanni Arcuri -detenuto a Rebibbia- e nuovo amico comparso in questo anno, non è mai superficiale, e non parla mai solo di se stesso e del carcere, ha questa spinta di conoscenza che lo porta ad avventurarsi nel mondo, a riflettere, cogliere le sfumature, affrontare le zone ambigue del presente, della storia, della mente e dell’animo umano e su di essere scrivere, per il piacere di scrivere e per il piacere di comunicare.

Ecco un suo interessantissimo pezzo, che in pratica è una lucida disamina… del conformismo. 

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LA TRIBU’

Siamo arrivati al punto di dovere affermare che la mediocrità e l’anonimato sono le scelte migliiori.

Se agirai così non avrai grandi problemi nella vita.

Ma se tenterai di essere diverso…

Chi esce dalla mediocrità ed ha successo sta sfidando la legge e deve essere punito.

La gente dovrebbe fare più spesso quello che desidera realmente e non quello che le convenzioni impongono. Purtroppo si rischia di camminare sulla lama di un rasoio, perché ciò non fa piacere a chi gestisce il grande spettacolo.

Per loro la gente diversa dal gregge è pericolosa. Appartiene ad un’altra tribù, potrebbe insidiare le loro terre, le loro donne e, cosa ancora più grave, intralciare i loro obiettivi.

Dobbiamo sposarci, avere figli, perpetuare la specie.

Poiché facciamo parte di una società organizzata, si deve accettare di lavorare in un campo che detestiamo, ci dobbiamo alzare tutti i giorni alla stessa ora e fare sorrisi di cortesia: se tutti facessero ciò che desiderano, il mondo non andrebbe più avanti.

Abbiamo l’obbligo di acquistare e indossare gioielli e status symbol: essi ci identificano con la nostra tribù, proprio come i percing connotano una tribù diversa.

Dobbiamo esser divertenti e trattare con ironia quelli che esprimono  loro sentimenti,  per la società è un pericolo lasciare che un membro manifesti ciò che sente.

E’ fondamentale evitare fortemente di dire: <<No!>>, giacché risultiamo più graditi quando diciamo <<Sì!>>, e questo ci permette  di sopravvivere in un ambiente ostile.

Ciò che gli altri pensano di noi è più importante di quello che sentiamo noi.

Non bisogna mai suscitare scandali: si potrebbe richiamare l’attenzione di una tribù nemica…

Se si ci si comporta in maniera diversa si verrà espulsi dalla società perché si potrebbe contagiare gli altri e distruggere tutto ciò che è stato organizzato con grande difficoltà e dovizia di particolari.

Dobbiamo sempre avere presente lo stile che deve caratterizzare la nostra vita nelle nuove caverne: se non ne abbiamo uno, consulteremo un decoratore o un arredatore che sfrutterò le migliori soluzioni del mercato per dimostrare agli altri che abbiamo gusto.

E’ opportuno mangiare tre volte al giorno anche se non abbiamo fame. Dobbiamo digiunare o quasi, quando violiamo i canoni della bellezza, anche se questo ci porterà ad essere affamati.

Dobbiamo vestirci secondo i dettami della moda, fare all’amore con o senza voglia, uccidere in nome delle frontiere e degli interessi economici non sempre ben occultati dai media. Augurarci che il tempo passi in fretta e arrivi presto il pensionamento, anche se ultimamente non c’è più certezza nemmeno in questo, esodati docet…; eleggere i politici, lamentarci per il costo della vita, andare nel locale giusto, maledire coloro che sono diversi, frequentare le funzioni religiose la domenica, o il sabato, oppure il venerdì, a seconda della nostra fede. E lì chiedere perdono per i nostri peccati, riempirci di orgoglio, perché abbiamo la verità e disprezzare l’altra tribù che adora un falso Dio.

I figli devono seguire le nostre orme: in fin dei conti siamo più vecchi e conosciamo il mondo.

Dobbiamo conseguire sempre una laurea, anche se non troveremo mai un lavoro nel campo in cui ci hanno obbligati a scegliere la nostra carriera.

Dobbiamo studiare cose che non ci serviranno mai, ma che qualcuno ci ha detto che era importante conoscere, algebra, trigonometria, e l’economia dei paesi produttori di materie prime.

Non dobbiamo mai rattristare i nostri genitori, anche se ciò significa rinunciare  a tutto ciò che ci rende felici. Dobbiamo ascoltare musica a basso volume, parlare sottovoce, piangere di nascosto, perché così hanno deciso i gestori del circo, coloro che hanno dettato le regole del gioco, l’idea del successo, la maniera di amare e l’importanza delle ricompense e del compromesso.

L’alternativa? Dimenticare ciò che si pensa di essere per potere diventare ciò che si è.

 

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