Alcuni giorni fa mi giunte una lettera di un detenuto che ci scrive per la prima volta, Antonio Piccoli, recluso a Catanzaro.
Dalle parole che scrive si capisce che ha tanto da raccontare.
A partire da una lunga lettera che arriva a toccare anche la sua vicenda e che, per permetterne una migliore leggibilità, ho distinto in due parti. Di cui questa è la prima.
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“Il vero male è l’indifferenza” diceva Madre Teresa
In risposta a quanti non osano ascoltare, ma solo giudicare:
contro ogni barriera e pregiudizio, un confronto è segno di civiltà e una prospettiva di apertura sociale per tutti.
I detenuti, definitivi o in attesa di giudizio, colpevoli o innocenti che siano; non più malati da circoscrivere e isolare, ma persone cui va garantito rispetto, dignità, partecipazione sociale e pari opportunità in vista di una loro redenzione e reinserimento; valori legati alla tutela più ampia degli esseri umani: “recidere il reo che può essere utile” è medievale.
La conoscenza nasce dal e nel confronto. Voglio condividere e rispettare ogni opinione, critica e disappunto, ma non se dettati dall’ignoranza.
Qualche tempo fa ho avuto modo di leggere (tra i tanti moti di solidarietà e positivi) un commento sul “blog di Corigliano”, in risposta ad un mio precedente articolo pubblicato sul quotidiano “L’ Ora della Calabria”, ove qualcuno ha scritto che “le carceri non devono essere hotel… ma luoghi di espiazione… che non bisogna lamentarsi… “.
Condivido, non devono essere un premio e una comodità. E se fossero solo umani?
“… sono luoghi malsani e morbosi, dove la gente impara a morire e sottomettersi… dove non possiamo dimenticare la nostra storia… anche di un profondo Sud.. e la nostra Cultura, che sono soltanto altre forme di violenza, dove è facile deridere cose e persone; dove la gente è capace di molto amore, affetto, calore umano e generosità. Ma, mio Dio, quanto sappiamo odiare! Ogni due, tre ore esaminiamo il passato, lo rispolveriamo e lo gettiamo in faccia a qualcuno”.
Ogni male non giustifica atrocità, altrimenti saremmo da biasimare alla pari dell’assassino, se così fosse. E chi di noi non ha mai peccato o sbagliato. Tutti meriteremmo atroci sofferenze, di vivere in un mondo simile al girone dei dannati “dantesco”, ove tutti dovremmo morire per colpe vecchie e nuove.
Rabbia d’egoismo, solitudine e tanto altro ancora. E’ ciò che ci porta a scatenarci, in mancanza di empatia, contro chiunque. Non è l’odio o la ragione che ci portano ad essere aggressivi, in tutte le sue forme (anche verbali), ma il pregiudizio, che altro non è se non degenerazione dell’ignoranza: abbiamo abbandonato la carità nel nostro triste mondo, di questo mondo allo sbando, ove dell’edonismo abbiamo fatto la nostra filosofia di vita, sempre alla ricerca della forma e non dell’essenza, dell’apparire e non dell’essere; ove i valori li cerchiamo nelle cose materiali e non nello spirito.
Al di là della mia personale condizione e situazione (e se fossi veramente innocente così come mi professo? Chi sta fuori e mi conosce bene, sa. Se fosse vero quanto contestatomi, l’ingiustizia sarebbe ancora più grave, poiché con centinaia di loro ho vissuto e mi sono accompagnato, ho condiviso gioie, speranze e dolori. Tutti questi sarebbero complici o stupidi?).
E’ vero, la galera non deve diventare divertimento: espiazione di pena? Sofferenza? Auotodafé o cosa?
Così com’è pur vero che “nessun uomo è così cattivo da non poter essere salvato”, e non l’ho detto io, benché mi pregi di recitarne la citazione e di condividerne il pensiero; ma Gandhi (uno sciocchino qualsiasi che ha contribuito a fare la storia di una grande Nazione, il cui esempio, la sua lotta, resteranno immortalati nelle menti e nei libri di storia per i tempi avvenire).
D’altronde hanno ragione loro: qui non è peggio che stare fuori, tra i salotti dell’ipocrisia. Qui i muri sono sozzi, lì tutto è sudicio. Qui topi e scarafaggi crescono in terra, lì camminano eretti con forma antropomorfa. Qui siamo troppi in una cella, lì siamo ingombranti, pronti a toglierci lo spazio e soffocare il nostro vicino.
Ho vissuto un tempo di cui non andare troppo fiero, a tratti vergognoso. Una società torbida, ove l’empatia e la carità lasciano il posto all’egoismo e alla perdizione dell’animo, abbandonando ogni virtù e l’insegnamento dei nostri genitori, certamente più saggi di noi. Ma questo è il mondo che ho trovato e che, anche mia colpa, ho imparato ad accettare per comodo. Tutti noi siamo colpevoli del nostro tempo, dei suoi mali, ove la virtù riecheggia nelle nostre anime come il frangersi dei flutti sulla battigia.
Non lasciamo che i nostri poco rifulgenti incarnino gli altrui ideali. Rivendico al Governo, fatto di uomini e istituzioni, la funzione che fu dei nostri padri, didattica educativa. Ma esso è semina di vizi, focolaio di corruzione, ricettacolo di banditi. Un buon Governo fa buoni cittadini, e buoni cittadini fanno grande una Nazione, cui ognuno deve ispirarsi.
Sono figlio del mio tempo e al mio tempo mi sono adeguato con silenzio. Chi direttamente, chi col proprio silenzio, tutti siamo complici e colpevoli. Una parola detta è un silenzio rotto: basta tacere, sempre pronti, col nostro falso perbenismo, a scagliarci contro chiunque, pur ignorandone ogni colpa. Se ciò che fuori ho lasciato è gente riottosa, pronta a giudicare e mossa da rabbia, allora ho lasciato il male per trovare il meglio: me stesso.
Dimentico della bellezza di una vita morigerata, ho vissuto lascivo e licenzioso, non esente da vizi, ma ciò non giustifica quanto mi sta accadendo. Ho lasciato un mondo che ho trovato e che col nostro silenzio abbiamo fomentato, pronti a giudicare e a sprizzare veleno sulle altrui disgrazie.
Prima di indagare sui mali degli altri, correggiamo i nostri; il giudizio temerario è figlio della superbia e dell’invidia, frutto di superficialità, che fa esagerare i difetti altrui.
Non vi è giustizia che valga il sacrificio di una sola vita innocente: qualsiasi innocente può essere diffamato, ma convinto di reità non può che essere colpevole.
Se chi tanto cinicamente ha puntato il dito, avesse solo ascoltato, ne converrebbe con me che “la pena non è sempre equa; dell’incapacità dei magistrati; dell’incapacità della pena a rieducare; della volontà della legge e dei giudici a punire, non a reinserire”.
Io, “… angaria da un infame e premeditato sopruso. La vergognosa ingiustizia diviene duplice, quando capisci che (viene dalla legge) mi viene negata la protezione della legge. Ma si vuol (si deve) combattere a ogni prezzo simili iniquità giudiziarie e vivere le proprie reazioni come un dovere di fronte al mondo (dovere che dovremmo sentire tutti, colpiti e non). Ciò che ne consegue è “il senso della giustizia ciò che fa, della vittima, un brigante e un assassino”.
In effetti, “il senso dell’ingiustizia, sopportata ma non riconosciuta, prima ancora che non punita, sta fra le nostre leve interiori più imperiose”.
Io, colpevole di essere innocente, punto il dito e accuso:
Gent.mo lettore, allego due lettere che avevo intenzione quanto prima di fare pubblicare, con le quali voglio esternarle alcuni miei pensieri sul controverso tema della giustizia, e alcune denunce e sentimenti che la mia travagliata e tragica situazione mi impongono.
Da oltre tre anni e otto mesi soffro ingiustamente una misura cautelare carceraria, ma di ciò no vi voglio tediare.
Oggi la paura di vivere ci toglie un tratto di umanità; la paura della legge ci uccide più del male e della fame; il problema è volere capire dov’è e qual’è il male.
Se sapessimo ogni qual volta la cosa giusta da fare saremmo dei saggi.
Voler apostrofare a tutti i costi gli italiani, quei “demoni e santi”, è un ‘offesa alla nostra memoria e alla storia, un vilipendio alla verità: al Sud i demoni, sterminateli.
Così, ancora una volta, dopo oltre un secolo e mezzo, in questa “terra di confine” non si applicano principi costituzionali e democrazia; oggi come allora l’Italia civile è divisa in due. Il Mezzogiorno d’Italia, e la Calabria in particolare, lo si vuole sottomesso e oppresso, senza speranza né futuro. Così come nel Risorgimento e ai tempi del “brigantaggio”; la “Legge Pica” viene applicata da “Magistratura Sabauda”, Tribunali speciali e processi sommari ci giudicano e condannano: come si può pensare di reinserire e rieducare una vittima di ingiustizia soggetta a soprusi?
Oggi sul fenomeno delle mafie, come allora sul fenomeno del brigantaggio, le verità profuse sono nebulose e vengono incartate da processi farsa ove appare solo un barlume di verità. Ai tempi dell’Unità, se brigante era un meridionale esso era un criminale da trattare alla pari della peste, se brigante era un emiliano, esso era considerato “cortese”, così come definito da Pascoli il brigante Passatore: “il Passatore cortese”; anche la letteratura ci è avversa. Ma la verità non è come la polenta: se la si mangia al Nord è buona, e se la si mangia al Sud è… la verità deve essere unica al di là da chi la si scorga o la si racconti ed accerti.
Non mi stancherò mai di recitare una celebre citazione di Aristotele: “preferire la verità è un dovere morale”, ed io aggiungo che a essa non si deve pervenire che servendosi di vie oneste. Ma la verità spesso viene travisata e propagandata a piacimento dello scrivente sul martoriato Sud Italia.
Ma al Sud sono davvero tutti mafiosi e collusi? Anche chi non lo è? I fatti sembrerebbero non affermarlo, almeno non più di quanto è nel resto del globo, ma ciò poco importa: ad affermarlo e accertarlo, con metodi autoritari, basta la sola volontà dei Giudici. Soppressa la Costituzione va di scena la repressione poliziesca, la caccia all’uomo è scatenata e il luogotenente Cialdini avrà di che deliziarsi.
(FINE PRIMA PARTE)
“…
Pubblicato da alfrhaed in
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