Le Urla dal Silenzio

La speranza non può essere uccisa per sempre.

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Diario di un permesso di primavera… di Carmelo Musumeci

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Pubblico le citazioni dal diario di  Carmelo Musumeci dove racconta della Pasqua che, per la prima volta dalla sua carcerazione nel 1991, ha potuto trascorrere in famiglia. Inoltre pochi giorni dopo ha potuto partecipare ad un incontro con gli studenti dell’Università di Perugia dove ha presentato il suo ultimo libro “Gli ergastolani senza scampo” (C. Musumeci -A. Pugiotto   Editoriale Scientifica 2016).
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25/03/2016
Oggi sono arrivato in casa di mio figlio e, circondato dall’affetto di tutti i miei familiari, mi sono scrollato di dosso 25 anni di sofferenza.
E ho pensato che valeva la pena sopravvivere a tanto dolore per essere così felice.
26/03/2016
Ho giocato tutto il giorno con i miei nipotini e mi è sembrato un po’ di ritornare bambino.
Poche volte mi sono sentito così felice ma anche tanto stanco perché i miei due nipotini sono due terremoti… o forse sono io che sono invecchiato, sic!
27/03/2016
Finalmente, dopo venticinque anni, ho passato la festività di Pasqua da uomo libero.
A tavola avrei voluto comunicare tante cose ai miei familiari e dire tante cose carine a ciascuno di loro, pensieri che ho tenuto nascosti in questi anni; invece sono riuscito a dire poco. Ma credo che per me abbiano parlato i miei occhi ed il mio cuore.
 2 8/03/2016
Oggi mio figlio mi ha portato a vedere la partita di pallone del mio nipotino Lorenzo. Ho fatto il tifo per lui e gli ho portato fortuna perché la sua squadra ha vinto.
Poi, con orgoglio, mi ha presentato ai suoi amici come se fossi una persona importante e, per la prima volta, mi sono sentito un nonno felice.
Gli altri bambini mi guardavano con curiosità e, davanti a quegli occhi, mi sono emozionato perché mi hanno ricordato i miei quando ero bambino, quando ero buono e innocente.
 29/03/2016
Oggi io e mia figlia siamo usciti da casa da soli.
Mi ha portato a prendere un gelato.
Abbiamo passeggiato per la strada mano nella mano e mi sono sentito l’uomo più felice della terra.
Senza di lei e senza mio figlio non ce l’avrei mai fatta.
In questi venticinque anni di carcere ogni giorno e ogni notte non ho mai smesso di pensare a loro: il mio cuore non li ha mai lasciati.
30/03/2016
Oggi sono stato all’Università di Perugia a presentare il mio ultimo libro “Gli ergastolani senza scampo” (scritto con il prof. Andrea Pugiotto, costituzionalista, e il prof. Davide Galliani) insieme ai proff. Stefano Anastasia e Carlo Fiorio. Eravamo riuniti nella stessa sala dove mi sono laureato.
Ho parlato davanti agli studenti della facoltà di giurisprudenza e mi sono commosso perché, per la prima volta, mi sono sentito accolto e accettato dalla società che mi aveva maledetto e condannato ad essere cattivo e colpevole per sempre.
31/03/2016
Domani rientro in carcere.
Sono triste ma sereno perché ho il cuore e la mente pieni delle emozioni che ho provato in questi giorni.
Penso che queste emozioni mi aiuteranno a continuare a lottare per sperare un giorno di diventare un uomo libero.
Non so se ci riuscirò, ma una cosa è certa: non smetterò mai di lottare per farcela.
1/04/2016
Sono di nuovo nella mia tomba, ma non sono solo: ho portato con me i sorrisi della mia compagna, dei miei figli, dei miei nipotini e di tutte le persone che in questi giorni ho visto e sentito al telefono.
Ricordo Tiziana, Mita, Francesco, Gabriella, Lino Lombardi, la famosa pianista Alessandra Celletti, la giornalista Francesca De Carolis, Mario Pontillo, Anna Buono, Anna Pau e tanti altri.
Poi i fratelli e le sorelle della Comunità Papa Giovanni XXIII: Monica, Luca, Francesca, Guido, Veronica e altri dei quali non ricordo il nome, ma ricordo gli sguardi.
Per ultimo mi sono portato nella mia cella lo sguardo del mio “Angelo Custode” che, come mi viene a prendere, mi riporta sempre in carcere. Ma mi ha promesso che presto verrà il giorno che non mi riporterà più dentro l’Assassino dei Sogni.
E io ci credo perché Don Oreste Benzi mi ha lasciato l’Angelo più tenace e furbo di tutti gli angeli!

L’incontro con Grazia Paletta… di Marcello Dell’Anna

sempre_speranza

Chi conosce questo Blog, ha imparato ad apprezzare Marcello Dell’Anna, attualmente detenuto a Nuoro.

Marcello è da anni che lotta, con tutto se stesso, per creare il suo nuovo destino.

Marcello è in carcere da più di venti anni.

Marcello ha ricevuto molti attestati ed encomi. 

Marcello ha scritto tre libri.

Marcello ha più di una laurea. E una di esse è in giurisprudenza.

Marcello, in occasione della discussione della tesi di laurea, ricevette dal Tribunale di Sorveglianza, un permesso di 14 ore. Un permesso da uomo libero, senza la presenza di una scorta o di alcun controllo da parte degli organi di polizia. 

Ma, soprattutto, Marcello non ha mai negato di avere fatto errori, di essere stato parte di un territorio criminale. Ma ha voluto riscattarsi da ogni retaggio negativo, diventare una persona nuova.

E ci è riuscito.

La lettera che ci invia oggi, racconta il colloquio che Marcello, qualche settimana fa ha avuto, nella sala colloqui di Badu e Carros, con la nostra Grazia Paletta e suo marito Daniele.

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Nuoro 22 luglio 2014

Caro Alfredo,

so benissimo che questo mio ritardo nel risponderti è -quasi- impedonabile (quel quasi, ovviamente, è l’attenuante invocata alla mia pena del commesso “ritardo”).

Riscontro la tua di giugno scorso. Tengo a dirti che laddove la mia risposta alla tua possa apparirti come sbrigativa, così non è, perché di sicuro recupererò nella mia prossima quanto di importante sto tralasciando ora in ordine al dialogo che hai avuto con Fabrizio Basciano, sulla “disciplina” quale strumento di miglioramento di sé. Locuzione, quella della “disciplina”, che balza all’evidenza dei miei pensieri come un flash, perché coglie il senso della mia vita vissuta tra regole e dettati ma anche tra indiscipline, vittorie e sconfitte.

Sappi comunque che ho letto con attenzione il “dialogo” tra te e Fabrizio, facendo tesoro dell’essenza del suo pensiero. Perciò, oggi, ed a maggior ragione, la mia tenacia, la mia perseveranza e la mia disciplina sono rafforzate da impegni e proposte che non potranno mai fermarsi di fronte a nessun rifiuto. Nemmeno se ne dovessi ricevere per 1008 volte. Ed utilizzerò ogni rifiuto quale risorsa per migliorare e migliorarmi.

Meritevole di precedenza a questo tuo argomento -sebbene anch’esso significativo- come sai, c’è l’evento di straordinaria emozione che si è realizzato e che merita indubbiamente la “prima pagina”. L’incontro, nella sala colloqui del carcere di Badu e Carros, tra me, la nostra amica Grazia Paletta e suo marito Daniele.

E’ sorprendente tutto questo. La vita riserva davvero insolite e bellissime sorprese. Spesso mi domando come è possibile sentire così vicine e intimamente amiche delle persone che neanche si conoscono, se non per uno scambio di lettere. Proprio come noi due in questo momento.

Caro Alfredo, colgo in quel colloquio -indimenticabile- la necessità di esprimerti le mie sensazioni usando la stessa metafora splendidamente raccontata dalla nostra Grazia nel suo libro “Sono Giovanni e cammino sotto il sole”.

Credo, perciò che la “principessa danzante” oggi possa cantare a tutto il regno musicale di avere realmente conosciuto un uomo che, trai tanti, aveva anche lui il “Volto coperto di fango”, poi diventato “di pietra”, ma che col passare del tempo ha mutato immagine, è stato pulito dal Vento del Cambiamento, nell’attesa ora di indossare la Corona della Libertà; tutto ciò perché nemmeno i Signori della Giustizia e della Paura hanno il diritto di negare ad una persona la possibilità della Ri-Nascita, lasciandola morire nelle Terre Sommerse.

Non ho dormito la notte precedente al colloquio… e no ho nemmeno dormito la notte susseguente a quell’incontro. Mille domande si pone il mio cuore, mille pensieri albergano nella mia mente. “Che impressione avrò fatto..?”. “Quali emozioni avrò scatenato…?”. “Cosa si saranno detti di me…?”. Di certo posso dire che Grazia e suo marito Daniele hanno lasciato un segno indelebile nel mio cuore e nella mia mente, inciso con abile precisione chirurgica, che mi farà da compagno per sempre!

Abbiamo trascorso insieme quasi quattro ore di colloquio, un tempo ricolmo di intensa emozione, di sensazioni quasi surreali, tanto che per un attimo abbiamo avuto l’impressione di stare seduti al tavolino di un bar sulla costa Smeralda.

Non c’è stato un solo minuto di silenzio, anche perché, a dire il vero, in queste mura di ferro e cemento, oggi mi riesce persino difficile trovare interlocutori capaci di comprendere il mio pensare, capaci per uno scambio culturale e  una crescita personale. Il mio “cambiamento in positivo” mi porta spesso ad isolarmi, anche se per me l’isolamento è stato crescita etica ed intellettiva, e, sebbene mai per un attimo mi sono sottratto all’impegno di riuscire a portare “dalla mia parte”, tanti altri uomini ergastolani che sono soliti rimanere relegati nel buio più totale, del vuoto, del nulla, prigionieri delle loro stesse ombre.

Così, dinanzi a Grazia e Daniele, è come se quella “diga di contenimento” dei miei pensieri più profondi avesse ceduto, riversando fiumi di parole che spero abbiano toccato l’intimo dei loro cuori. Perché le loro, di sicuro, hanno toccato il mio.

Daniele, incuriosito, mi poneva delle domande; erano mirate, sensate, coglievano nel segno… Mente nel viso, ma soprattutto negli occhi, di Grazia si poteva scorgere lontano un miglio tutta la sua emozione e contentezza, come del resto anche la mia.

Abbiamo parlato di me, della mia storia personale, del mio percorso all’incontrario, ossia “dalla illegalità alla legalità”, tanto per parafrasare l’esimo avvocato Angelo Merlini, della  mia “metamorfosi” interiore, avvenuta in questi anni, dall’essermi saputo spogliare da quei pregiudizi di sottocultura, di cui, il carcere prima e la malavita poi, sono proficue “mostruose macchine di produzione”. Per questo oggi riesco a guardare negli occhi chiunque, perché cambiato, migliorato, perché sconto la mia pena per emendare il male fatto e lo faccio con non poche sofferenze, dato che il carcere e la propria coscienza ti presentano sempre il loro pesante conto da pagare: quello del rimorso.

Non possiamo solo dire -rifugiandoci con abile artificio nell’alibi del tempo- che venti, trent’anni o più, di galera, cambiano una persona. Dal punto di vista estetico indubbiamente; dal punto di vista morale, dipende da noi, soltanto da noi, dalla nostra volontà e dalle nostre scelte. Dimostrare coi fatti, un cambiamento morale, ed eliminare vincoli e ideologie che sono solo illusioni e inganni.

Bisogna essere cedibili, altrimenti, se vulnerabili, ci si espone a qualsiasi attacco, soprattutto da parte di coloro i quali sono sempre lì in agguato, pronti a dire… “bisognava buttare via la chiave…”.

Ecco perché, oltre al cambiamento del “tempo”, bisogna (di) mostrare l’essenza della credibilità, farla capire, comprendere a tutti, iniziando proprio dall’interno delle prigioni, per poi esportarla all’esterno, nelle scuole, nelle università, nelle periferie a rischio. E di questa incombenza ci siamo fatti carico io e Grazia, prefissandoci degli obiettivi e, perché no, anche dei possibili progetti. Te ne parlerà sicuramente…

(…) Abbiamo  parlato anche di come Voi siete la nostra voce all’esterno, riportando e facendo conoscere  alla società tutta testimonianze molto forti di vite… che vanno vissute… che vanno considerate… perché cambiate, perché migliorate… perché a tutti bisogna dare una seconda possibilità, almeno una sola… Abbiamo parlato del blog che avete creato per noi. Un mezzo al quale ognuno di noi è chiamato in causa per migliorarlo, arricchirlo, renderlo più efficiente e più efficace.

Alfredo, prima di concludere, posso dirti solo, e con molta franchezza, che in tutti Voi percepisco la vicinanza del bene oltreché il vostro affetto; la fiducia è quella di rialzarmi, di credere, di resistere, di lottare… sempre!

Ora avrai modo di conoscere meglio la mia persona e come la penso. L’amica Grazia, se non l’ha già fatto, sicuramente ti parlerà di me, di quello che sono oggi.

Un forte e caro abbraccio.

Marcello

Favole e “lire”… di Claudio Conte

 

Nel mentre di una di queste lavorazioni, si venne a creare una strana integrazione tra le mani e la “materia” a essa soggetta. Materia che dotata di propria volontà e vita guidava le “mani” nel loro lavoro e quest’ultime fiduciose ne seguivano l’impulso ricevuto. Non erano loro a dar forma al legno, ma era l “figura” già in esso contenuta che si faceva modellare e ripulire da quegli eccessi che ne imprigionavano la forma. Allo stesso tempo le “mani” ricevevano un’energia che le rinvigoriva, trovando una nuova “ragione di vita”. Finalmente costruivano qualcosa. A cosa erano servite fino ad allora? Se non a distruggere, il più delle volte, tutto quello che a loro tiro capitava. Erano state forza incontrollata, non malvagia, ma semplicemente non educata e indirizzata.”

Questo colossale brano è tratto dal testo che tra poco leggerete.

Qualche mese addietro ebbi l’ardire (che non rinnego, anzi diabolicamente riconfermo) di definire un testo di Claudio Conte -detenuto a Catanzaro- “divino”.. anzi togliamo le virgolette… divino (vai al link..  https://urladalsilenzio.wordpress.com/2011/10/22/7620/).

E adesso che dovrei dire? Claudio ci dona un testo scritto tempo addietro, nell’ambito di un corso  tenutosi all’interno del carcere. Un testo che è, allo stesso tempo, un inno ai miti, al mondo classico, alla Bellezza, e alla Musica come eterno Potere che trasfigura e porta a nuovi vita, dopo costanti morti.

Mai come in questo testo (tra quelli che ho potuto leggere io, intendo) Claudio ha raggiunto un tale livello di sintesi tra forma e contenuto, tra parole e immagini, tra senso e ritmo, tra tensione emotiva e bellezza greco-romana dello stile.

Assolutamente da leggere, e da far leggere.

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FAVOLE E “LIRE”

Ogni tanto dal mio archivio spunta qualche ricordo del passato… Questo è uno scritto che realizzai tempo fa, al termine di un corso tenutosi all’interno del carcere , e che dove essere parte di un libro, per descriverne lo svolgimento, e che poi non si poté fare. Così andò a finire in un libro successivo realizzato con la Prof. Nisticò e l’associazione “Il confronto”, dal titolo “L’eco delle voci”.

Ve lo invio integralmente, com’era all’origine, nella convinzione di fare cosa gradita… a coloro che tali esperienze le hanno vissute e coloro che lo leggeranno! Tra i quali so esserci il “grande” Eugenio (Masciari), noto attore e regista, col quale su argomenti simili, pochi mesi fa, abbiamo avuto approfondite discussioni, in occasioni di un corso di scrittura creativa, in relazione al quale tra poco uscirà un libro-resoconto.

Esperienze che dimostrano come il carcere possa essere per l’uomo anche un luogo costruttivo, di evoluzione. L’augurio è che si possano estendere e moltiplicare con il sostegno di istituzioni, enti locali e società civile.

Buona lettura…

Catanzaro, 3 novembre 2011

Claudio Conte

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E’ la storia di alcuni “prigionieri incalliti”, nel senso che si sono formati i “calli” alle mani… a furia di lavorare… J! E’ la storia dell’origine della “lira calabrese”.

E’ un racconto al quale le “ali icariane” prestategli l’hanno reso “leggero”, ma che non teme la “caduta”, anche se fosse letto alla luce del Sole-ragione.

Vi lascio alla sua lettura che, comunque, ha rappresentato una bellissima esperienza. Ha permesso l’incontro e la conoscenza di persone non comuni, con le quali si è instaurato un profondo rapporto umano e di comprensione, come può avvenire solo condividendo esperienze che nascono nelle difficoltà e sopravvivono nella speranza.

Il pensiero e un ringraziamento vanno a coloro che l’hanno resa possibile, alla Regione Calabria, alla Direzione del carcere di Catanzaro, alla CORISS…

 

P.S.: Da un’attendibile ricostruzione storica risulta che la “lira” nasce nella Grecia antica, come un cordofono “pizzicato” di diversa struttura e comprensione, da quella legnosa piriforme, che si attesta intorno all’VIII sec. D.C. “L’archetto”, si aggiunge, probabilmente, nell’XI sec., trasformandola in un “cordofono ad arco”. Nel racconto “favoloso” non si è tenuto conto di questa successione temporale, per esigenze “poetiche”.

 

Si narra che in un tempo molto lontano, in cui il mondo viveva ancora nella sua innocenza, un mondo perfetto, completo, finito; il mondo greco-classico per eccellenza, un mondo in cui l’uomo non conosceva ancora il conflitto interiore e viveva con le divinità un rapporto diretto e quasi umano.

In tale mondo, e più precisamente sulle spiagge di Corinto, accadde che in una notte stellata s’incontrarono due giovani. Irla, una fanciulla di straordinaria bellezza che era intenta a cantare gli inni amorosi di Afrodite, la dea dell’amore nata dalla “spuma del mare”; e Acro, uno straniero che da tali acque era appena sbucato sulla costa, poeta e suonatore, seguace dell’orfismo, di quell’Orfeo figlio di Apollo, già dio delle arti.

Fatali risultarono per loro l’incontro e le promesse che si scambiarono, con le quali si giurarono eterno amore, ma alle quali si oppose il Fato che, conoscendo l’antinomico destino che li avrebbe allontanati, li mise sull’avviso. Conosciuta la triste sorte caddero preda di un indicibile sconforto. I due sfortunati amanti, non accettando una così tragica separazione, pregarono per l’intercessione di Apollo e di Afrodite, i cui culti erano celebratissimi nella città 

greca. Chiesero che gli fossero risparmiate tali insopportabili pene d’amore, ma, non ricevendo alcuna risposta, anziché accettare passivamente l’ineluttabile divisione, preferirono correre, mano nella mano incontro al mare per lasciarsi inghiottire dai suoi flutti, fissando con tale gesto la perfezione del sentimento e quell’attimo nell’immutabilità dell’eterno.

 

Gli dei, che nulla potevano contro il Fato, rimasero colpiti da tanto genuino amore e concessero ai due amanti di essere trasfigurati e vivere per sempre in uno strumento musicale, le cui note avrebbero fatto rivivere la loro passione. Nacquero così “la Lira” e “l’Arco”. Destinati ad essere inseparabili, poiché l’una non avrebbe avuto significato senza l’altro, per forza di cose complementari, perché solo dalla loro riunione poteva scaturire il suono.

Strumento che dalla Grecia antica si sarebbe diffuso in tutto il Mediterraneo, nel Settentrione e nell’XI secolo di Nostro Signore, avrebbe raggiunto la massima diffusione, fino ad approdare alle coste calabresi dove si sarebbe radicato in una forte tradizione. Tradizione che ne ha consentito la sopravvivenza e ha permesso che non si rischiasse di estinguere nell’indifferenza la sua presenza e con essa quella delle due anime, dei due giovani miti amanti che, nelle note emerse da tali strumenti, sopravvivono e si “reincarnano”, in quella concezione circolare del mondo antico, da cui provenivano. Quella concezione che troviamo  espressa nelle religioni induiste e filosofiche buddiste orientali, come in Platone. In quella “reincarnazione” che procede all’infinito, fin quando non sono ricondotte sulla loro “stella”, come nella “religione astrale” ci viene fatto ricordare.

 

Avvenne così che, molti secoli dopo, in una specie di “castello”, posto su una soleggiata collina –oppure si trattava di una “prigione” sprofondata in una fossa, nella quale l’umidità  penetrava fino alle ossa. Sta di fatto che in quel luogo, comunque lo si volesse considerare, vi si recava, per un breve periodo, tal “mastro Bruno”, con l’intento di insegnare ai suoi “abitanti” la nobile arte della costruzione dell’antico strumento musicale, “la lira calabrese ad arco”, nome che aveva assunto nel tempo, da quelle parti.

Era quello un luogo che, si diceva sottovoce, fosse soggetto all’incanto, e nel quale si erano fermati “i passi del tempo”. Popolato da strani esseri animati, che erano invisi e vivevano celati al resti del mondo. I pochi che avevano avuto occasione di avvicinarli, non avevano potuto scorgere altro che le sole “mani e robuste braccia”, quasi che non fossero fatti di altra sostanza… né cuore né faccia.

 

Già al primo incontro, “mastro Bruno” portò loro il necessario legno, chiarendone le proprietà e qualità, di come si trattasse di materia ancora “viva” e fosse soggetta alle variazioni di temperatura. Ciò gli permise di nascondere il grande sgomento e stupore derivante dall’avere innanzi tali esseri, in tutta la loro figura e natura.

Esseri gentili e sorridenti, che parevano contenti dell’inconsueto visitatore, che osservavano  con altrettanta curiosità e attenzione, anche nelle sue più tecniche spiegazioni: “Il legno è prodotto dalla pianta come elemento strutturale, è costituito da fibre di cellulosa trattenute da una matrice di lignina (…). Le parti che compongono il tronco si possono dividere in: corteccia esterna; corteccia interna, detta anche alburno; in libro; in cambio; in durame, fino al midollo che  è la parte centrale…”.

Tutti annuivano a tale lezione, necessaria alla comprensione della vera e propria lavorazione. A ciascuno fu poi assegnato un massello di legno, dal quale dovevano ricavare quasi l’intero strumento, scavando l’interno e modellando l’esterno.

Tutti si  misero al lavoro con buona lena, tanto che nessuno lo intendeva come una fatica, anzi, il contatto con tale materia legnosa, a tutti ricordò le esperienze di molti anni prima. Quando ancora ragazzini sugli alberi si saliva, per giocare o costruire nuove piccole case, facendo le prime esperienze con il mondo reale, che a quel tempo era una continua scoperta. Tutto aveva una sua diversa natura, gli alberi animati e parlanti, quasi don chisciottiani e giganti, ai quali ci si rivolgeva per essere difesi, magari da altri immaginari fantasmi. Erano “gli occhi del bambino” che riponevano nella natura la massima fiducia. Non si erano ancora scontrati con la realtà impietosa e “dura” che avrebbe fatto vedere loro degli uomini l’altra natura: l’homo homini lupus, di pessimistica hobbesiana memoria.

 

Nel mentre di una di queste lavorazioni, si venne a creare una strana integrazione tra le mani e la “materia” a essa soggetta. Materia che dotata di propria volontà e vita guidava le “mani” nel loro lavoro e quest’ultime fiduciose ne seguivano l’impulso ricevuto. Non erano loro a dar forma al legno, ma era l “figura” già in esso contenuta che si faceva modellare e ripulire da quegli eccessi che ne imprigionavano la forma. Allo stesso tempo le “mani” ricevevano un’energia che le rinvigoriva, trovando una nuova “ragione di vita”. Finalmente costruivano qualcosa. A cosa erano servite fino ad allora? Se non a distruggere, il più delle volte, tutto quello che a loro tiro capitava. Erano state forza incontrollata, non malvagia, ma semplicemente non educata e indirizzata.

Con tale imprevisto incontro, gli “echi” di un mondo da cui erano lontani da molti, forse troppi anni, riecheggiarono nei loro sensi, e con essi albeggiò di nuovo il sorriso, vivendo giornate liete e felici, come non accadeva da molto tempo. L’ “eco” della libertà, con le sue immagini di affetti e luoghi lontani, con  gli odori familiari, fu così forte che trasformò quel luogo in “un’isola felice” sospesa in quell’incommensurabilità propria del tempo. Non è scritto forse che il mondo è rappresentazione e che il mondo come volontà prevale sulla prima?

Si trovava vano davvero bene “mente” e “braccia”. Lei guidava, esse seguivano. Un’osmosi che dava buoni frutti. La prima alle seconde aveva insegnato la delicatezza e la sensibilità nei movimenti, che ormai si erano trasformati in tenere carezze, mentre le mani ricambiavano, dandole forme sempre più perfette, statuarie.

In esse si rifletteva quella forma d’arte dalle forme pure ed armoniose della classicità, di quella statuaria greca con le sue divinità e figure dalle forme perfette, serene e prive di passioni, ma ricchissime della forza della bellezza, di quella forza che s’impone senza fatica, carattere principale delle forme classiche.

Perfetta che significa innanzitutto completa, cioè che non manca di nulla, che non esprime desiderio. Una bellezza immobile, statica, che è sì vita, ma oggettivata in una forma posta al di fuori del tempo, non soggetta al divenire, alla corruzione, alla morte. Lo provava la sua esistenza che aveva superato indenne le “forche caudine” dei secoli.

Fu così che giorno dopo giorno, levigata dopo levigata, come la goccia che scava la roccia, che a quell’essere di sole “mani e braccia” sustanziato, quella “creatura” gli entrò nel cuore.

Quando fu bella e completata, rifinita e lucidata, arrivò il momento per il quale era stata creata. Legate le “corde” e preparato “l’archetto”, posta “l’anima” sotto il “ponticello” per amplificare le vibrazioni nella “cassa armonica”, si diede il via alla sua prima rappresentazione musicale. Tutti erano lì a guardare quando… dal movimento dell’arco…. si iniziarono a sentire i primi profondi suoni, che furono ritmati con una maestria tale da fare rimanere prima incantati e poi commossi. Immaginate quando le note come in fuga iniziarono la loro folle e danzante corsa, superando sbarre e cancelli, lunghi corridoi, e come onde di un’inarrestabile marea tutto travolgevano e sommergevano.

Immaginate la gioia che portarono in quei luoghi abituati a ben altri rumori di catene, di lamenti, grida di dolore o di disperazione. Come “folate d’aria fresca” spazzarono via qeulla “stantia”, per riportarvi la primitiva umana energia, risvegliando quella forza vitale che trova la sua più immediata espressione nello spirito della musica, una musica dionisiaca, passionale, istintiva. Quella che esprimeva la musica wagneriana, una speranza e la purezza della vita, nella quale era possibile trovare nuovamente espressione immediata in una forma ideale perfetta. Capace di una rivoluzione culturale da cui si sarebbe potuto aspettare una vera rigenerazione dell’umanità, con i suoi istinti più sani, finalmente liberi di svilupparsi e maturare.

Affinché quell’uomo che come una corda, un cavo testo tra l’animale e l’oltreuomo.. “un cavo al di sopra di un abisso, un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino”, non abbia a “rabbrividire” ulteriormente per la sua forza fermata. Perche “la grandezza dell’uomo è di essere un ponte, non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione ed un tramonto”.

Immensa fu poi la commozione, quando in sottofondo si sentirono le voci dei due giovani amanti che, come un’eco nell’eternità, rivivevano la loro infinità passione in quella forma di magica “reincarnazione” a cui erano stati relegati col favore delle divinità.

Ma come il tuono annuncia l’imminenza di un temporale, così quel suono annunciava la fine “dell’idillio” che era stato concesso. Si era, infatti, stabilito che appena fosse stata completata, sarebbe “passata di mano” per essere commerciata sulle piazze di tutto il mondo. La “lira calabrese” era stata realizzata per allietare le serate e mantenere viva la tradizione. Non era previsto che potesse essere riscattata da chi l’aveva creata non con colpi di scalpello, ma con gesti che venivano dal cuore. Gesti immortali che si rinnovano identici nel tempo. Ma anche in questo caso  le fredde circostanze, più che il destino, avevano già stabilito una dolorosa separazione.

Nei momenti di separazione a tutti è noto lo strazio che si prova nel petto, quando si è allontanati da una persona amata o da un suo oggetto; è noto come il cuore cada preda di “un’anoressia d’amore”, di come la realtà diventi monocolore; come la vita stessa risulti insapore; i fiori inodori e l’aria pur necessaria per respirare diventi “lava” incandescente per la gola e i polmoni.

Chi poteva mai immaginare che delle “mani” o una “lira di legno”, potessero provare dei sentimenti. Solo “mastro Bruno” che di tali entità aveva conosciuto l’intera figura e natura, comprese dell’esistenza di un cuore e di come, da quella particolare “Lira”, fosse stato conquistato al suo “creatore”. Egli conosceva l’antica favola greca, del mito che tramandava e di come in parte fosse vera…

Fece di tutto per evitare la loro separazione, sapeva bene che quella “lira” non avrebbe mai suonato in mano ad altri, come quando, per la prima volta, la sentì vibrare sotto “le mani del suo suonatore”. E vi riuscì. Così da quel giorno tutti vivono felicemente e, ogni volta che il suono di quello strumento, si propaga nell’aria, tutti sono colti da un’atmosfera irreale, nella quale si vedono convivere falchi e colombe, lupo e agnello, fuoco e paglia, luce e buio, in quell’ordine nel quale “tutto è uno” in un equilibrio derivante dalla tensione e interdipendenza degli opposi nel loro continuo divenire…

Un lieto fine? Sì! Poiché in questa dimensione ogni decisione è lasciata al suo amore!

 

Un giorno alla settimana di “purificazione”.. dal carcere di Catanzaro

Nel carcere di Catanzaro hanno iniziato una pratica di digiuno “settimanale”.. ovvero di un giorno di “digiuno” alla settiamana. Lo chiamo in senso lato “digiuno”, dato che è possibile mangiare frutta, oltre   a bere acqua. Chi se la sente può anche soltanto bere acqua.

Di questa iniziativa ce ne da comunicazione Claudio Conte nella lettera che leggerete. E’ stata stabilita per tutta l’estate. Ma.. secondo me.. si potrebbe anche pensare di prolungarlo per altri mesi. Anzi.. di farne una stabile pratica di vita.

Sicuramente una delle spinte che ha dato luogo all’intraprendere questa inizitiva è stato il sopraggiungere dei mesi estivi che comporta la grande beneficità per il corpo dall’astenersi da cibi “caldi” e “pesanti” e dall’assunzione di frutta, verdura.. cibo “fresco”.

Ma la positività di tale pratica è perenne. E inoltre, cosa che emerge anche dalle parole di Claudio, essa produce anche benefici mentali e spirituali. Si può decidere di intraprenderla anche per attuare un allegerimento “mentale”… digiunare infatti alleggerisce l’incessante attività mentale, e disancora dai pensieri cupi, ansiosi e.. “pesanti”.. e la si può intraprendere anche per una spinta spirituale. Spesso i vari “elementi” (salutistico, mentale, spirituale) sono interconnessi anche se non tutti gli attuatori di pratiche del genere ne sono consapevoli.

Inoltre il digiuno determina Vigore e Forza Interiore… questo spiega la sua grande importanza nella pratica Gandhiana e in coloro che a Gandhi si sono ispirati. Ma la storia del digiuno è molto più ampia.

In sintesi… si tratta di una grande idea. Su tutti i piani. Specie quello di una battaglia di purificazione interiore, che è simbolo di una più ampia ricerca di libertà. Il farlo tutti insieme lo stesso giorno è poi, come fa capire Claudio, il simbolo di qualcosa che unisce  e rende tutti più forti.

E il farlo coinvolgendo più.. “mondi”… come il mondo di chi è detenuto.. e il mondo dei “liberi”… crea un’onda energetica ancora più forte, e un senso di condivisione ancora più intenso.

Claudio propone a chi vuole di aggiungersi, il venerdì, digiunando.. o mangiando solo frutta. E invita anche a dare un nome a questo giorno. Sicuramente non accolgo il nome che Cladio ha dato per scherzo.. “beauty-day”.. :-). Si tratta di qualcosa di più di un giorno per migliorare la forma fisica. Io, appunto per queste reminiscenze gandhiane… lo chiamerei.. “il giorno della verità” o “il giorno della libertà”. Ma ognuno di voi proponga il nome che preferisce.

E chi vorrà dare la propria partecipazione morale a questo giorno di digiuno.. potrà anche direttamente scrivercelo e lo comunichermo anche agli amici del carcere di Catanzaro. Cosicchè faremo di questo giorno un grande giorno di INCONTRO.. tra esseri umani.. al di là di etichette, categorie, sentenze e condanne.

(..)

Questo è un messaggio per te e tutti gli amici. Qui siamo partiti con un’altra delle nostre iniziative… tutte estive.

Abbiamo stabilito un giorno settimanale di “purificazione” (ma stiamo  cercando ancora una definizione…) alimentare. In sostanza il venerdì solo acqua e un pò di frutta. C’è chi lo fa per dimagrire un pò, per fare riposare lo stomaco (insomma per motivi salutistici) e chi lo fa anche per fini spirituali.

Ma principalmente lo spirito è nel fare qualcosa insieme, facendoci del bene. Senza soffrire. Le regole infatti sono semplici. Chi non resiste deve fare pubblica ammend.. e può ritentare le settimane successive (durerà tutta l’estate). Qui alcuni di noi hanno iniziato venerdì scorso. Non ti dico le risate.. perchè c’è Raffaele (che come me è una “buona forchetta”) sul quale nessuno puntava, nessuno credeva che avrebbe resistito (guardie incluse). Beh! Ce l’ha fatta! Nonostante vari e insistenti tentativi…

Poi c’è Fabio che piano piano vuole arrivare a bere solo acqua. Per adesso però è uno di quelli che ha mangiato di più… cercando di coinvolgere anche il nostro Raffaele…

Come avrai capito è una cosa divertente. Può aderire chi vuole. Quindi fai passare il messaggio sul Blog. Per quelli che vogliono  partecipare al beauty-day (puoi vedere anche di trovare un altro modo, anzi apri il concorso al migliore e originale nome).

Caro Alfredo, come avrai capito è anche un modo per interagire e fare qualcosa insieme durante l’estate…

Un abbraccio

Claudio

Catanzaro  19 giugno 2011

La pena dell’attesa.. di Claudio Conte

Claudio Conte (che scrive da Catanzaro) interviene poco.. ma sembre con momenti di assoluto valore. Il suo ultimo contributo è stato un racconto di argomento natalizio. Oggi torna con una riflessione, molto acuta ed efficace sul tempo, la pena dell’attesa, la tremenda intensità di alcuni momenti.

Ma prima voglio riportare la parte finale della lettera personale che Claudio mi ha inviato.. perchè merita di essere condivisa con tutti..

“Mi congedo con un caro saluto, in particolare ad Alessandra, Pina, Antonella e a tutti coloro che si sono interessati alla campagna “Bambini in carcere”. Il prossimo “passo” sarà quello di sollecitare una legge che preveda la detenzione di madri con bambini in comunità strutturalmente modellate su quello di recupero dei tossicodipendenti. Nelle quali è assicurata la vigilanza e lo scopo è aiutare e non punire. Chi ne avesse la possibilità, investa della proposta gli assessori alle politiche sociali del comune di residenza e i parlamentari. E teniamoci informati.

Claudio        Catanzaro, 15 febbraio 2011″

E’ una degna battaglia amici. Una battaglia di civiltà. Sosteniamola.. ognuno di noi dia una mano.

E ora torniamo al post di oggi. Premetto che Claudio ha uno stile molto fluido, sa essere estremamente chiaro, comprensibile, ma senza essere prosaico.. brusco.. è chiaro, ma lo sa essere “esteticamente”.. è un modo di scrivere che definirei.. “limpido”…:-)

Il pezzo tocca temi delicati, come indicavo in precedenza. La dimensione temporale nelle sue connotazioni emotive. Il tempo è gravido di sentimenti ed emozioni. E tutto ciò si amplifica in quei luoghi dove la scansione temporale è “forzata”.. specie negli “incontri” e nei “distacchi”.

Testi come questi sono utili perchè sono una sfida ad immaginare, ad “immedesimarsi”. Ma ci siamo mai chiesti veramente cosa si prova quando attendi con ansia un colloquio, quando vedi i minuti correre via, e quando si avvicina il distacco e le parole ti si rompono in gola. Voglio citare un pezzo bellissimo del testo di Claudio, che ha un verismo emotivo che mi ricorda Dostoevkji:

L’incontro in carcere assume un’ntensità eccezionale, ma raggiunge il suo apice con la separazione. Nel “mondo libero”, anche quando non è voluta, è una scelta. Non in carcere. Qui è forzata, è quella del tempo scaduto che si consacra nel momento del saluto e dell’addio. Quello in cui gli occhi si inumidiscono, la voce è impastata, i lineamenti del viso si induriscono, tradendo la tempesta di sentimenti che si scatena nel cuore. Un momento nel quale, sull’ “altare del tempo”, si rinnova la “promessa”: ci dividono, ma solo fisicamente. Per rendere meno doloroso il distacco di quello che può essere un “pezzo” del tuo cuore. Un “vuoto” che ti accompagnerà fino alla prossima occasione, al prossimo incontro. Se ci sarà. Perchè non è scontato, in carcere come nella vita. In specie per quei legami che pur “sacri”, non hanno riconoscimento giuridico. Per i quali i cancelli del carcere rimarranno chiusi. Resta solo il pensiero che può spiccare il “volo” e non trova ostacoli.”

Claudio definisce il carcere “l’emblema della separazione”… e lo è davvero.. e lo è ancora di più per certe norme tribalie a antiquate e certe mentalità burocratiche e iperrigide che fomentano invece di stemperare il tasso di “separazione” dal mondo, dal cuore, e dalla vita.. di cui è impregnato il carcere.

Buona lettura

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La vita stessa pare breve… altrimenti il tempo si allunga, diventa interminabile, uno spreco. E l’anima si contorce e si consuma, perchè solo nella riunione trova pace.

Questa è una sensazione che conosciamo tutti, che appartiene a tutti.

Come conosciamo la “pena dell’attesa”. Ne vogliamo parlare? Ne vogliamo parlare veramente? Ma davvero? Va bene ne parlo…

Vogliamo ricordarci, specie noi maschietti, che l’attesa inizia appena nati con la “pappata”, la riviviamo nella “cerimonia del trucco” durante la vita (mentre a noi non è dato neanche pitturarci). Senza tralasciare che continua anche nell’ “altro mondo”. Statisticamente per noi.. la “dipartita”… arriva prima. Comnque voi.. fate pure con calma :-)!

Ma ironia a parte, l’attesa per chi è in carcere è “pena” che si aggiunge a quella dei giudici. Che può però trasformarsi in “felicitàà”.. quando si realizza. E l’unica “pena” che ha questa capacità. E’ il potere che hanno le persone a noi care. Un sorriso ci “illumina” la vita. Tutto è chiaro. Comprendi quanto sono importanti. E a volte neanche glielo dici. Quante volte ci è successo. Facciamolo alla prima occasione. Io lo sto facendo in questo momento, in un certo senso. E quelle persone che mi incontrano e alle quali manco, perchè c’è separzione dove c’è condivisione (non sono sicuro di avere scritto correttamente questa frase o che non mancasse qualche parola.. nota di Alfredo).

L’incontro in carcere assume un’ntensità eccezionale, ma raggiunge il suo apice con la separazione. Nel “mondo libero”, anche quando non è voluta, è una scelta. Non in carcere. Qui è forzata, è quella del tempo scaduto che si consacra nel momento del saluto e dell’addio. Quello in cui gli occhi si inumidiscono, la voce è impastata, i lineamenti del viso si induriscono, tradendo la tempesta di sentimenti che si scatena nel cuore. Un momento nel quale, sull’ “altare del tempo”, si rinnova la “promessa”: ci dividono, ma solo fisicamente. Per rendere meno doloroso il distacco di quello che può essere un “pezzo” del tuo cuore. Un “vuoto” che ti accompagnerà fino alla prossima occasione, al prossimo incontro. Se ci sarà. Perchè non è scontato, in carcere come nella vita. In specie per quei legami che pur “sacri”, non hanno riconoscimento giuridico. Per i quali i cancelli del carcere rimarranno chiusi. Resta solo il pensiero che può spiccare il “volo” e non trova ostacoli.

Il carcere in questo senso è l’emblema della separazione. Le sue alte mura la rappresentano fisicamente. Le sbarre che si protrarranno nel tempo. L’ergastolo che, probabilmente, lo sarà per sempre.

Eppure.. la libertà è di tutti.

Un abbraccio

Claudio Conte

Lettere dal di fuori… da Sabina a Carmelo

Amici, per la rubrica “Lettere dal di fuori”, nata da una idea di Carmelo Musumeci.. pubblico oggi una lettera inviata da Sabina (di cui abbiamo già pubblicato altre due lettere) a Carmelo…

Per i temi trattati, è una lettera estremamente interessante….

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Roma 9 settembre 2010

Ciao Carmelo,

ti ringrazio per le cose che mi hai scritto nella tua lettera e per le margherite stupende che mi ha mandato Zanna Blu. Sentirmi chiamare da te Lupa Sabina mi ha commosso. E poi sono stata superfelice di ricevere tue notizie anche attraverso il diario! Vado sul sito tutti i giorni, e quando vedo che è aggiornato, mi precipito a leggerlo…

Mi dispiace tanto che non ti abbiano accettato il permesso. La trovo un’enorme ingiustizia!

Per quanto riguarda le persone che ti stanno accanto e che ci rimangono male, uno ci rimane più male se smetti di lottare! Non è vero che era meglio se non ci provavi, anche se mi rendo cono che la delusione può farlo pensare.

Mi ha fatto piacere che la mia lettera ti sia arrivata in quel momento, e ti abbia sollevato un pò il morale.

Forse già lo sai, ma eravamo in tanti a pensarti… Qui fuori siamo in tanti a volerti bene…

Conta su di me per fare una presentazione dei libri tra i miei amici!

Sono le due di notte, mi sono messa a scriverti appena rientrata a casa. Stasera sono stata alla Festa dell’Unità a Muratella, un quartiere di Roma. Mi hanno invitato perché c’era una iniziativa sul carcere, dal tipolo “entriamo in carcere”, a cui hano partecipato Ilaria Cucchi (la sorella di Stefano), Angilo Marroni, garnte dei diritti dei detenuti del Lazio, e Sandro Favi, responsabile carcere del PD.

Io ho diversi amici tra i giovani democratici (la parte giovanile del Partito Democratico). Io non sono iscritta, non ho la tessera.. perché non condivido alcune cose che dicono, mi sembra quasi che non è un partito di sinistra… sono un pò sfiduciata insomma. Si pensa ai voti e non agli ideali. Comunque a qualche iniziativa prendo parte, se l’argomento mi interessa. Soprattutto  le iniziative dei giovani democratici, forse perché li conosco personalmente, e so che loro ci credono davvero, che quello che fanno lo fanno con passione, senza tornaconti pe rsonali. Ed è per questo che, anche se non condivido tutto, mi fa piacere dare il mio appoggio.

Simone, il ragazzo a cui ho fatto leggere il tuo libro e che ora è in attesa di Zanna Blu, mi ha invitato a questa iniziativa. Angiolo Marroni e Sandro Favi non li conosco politicamente, quindi non posso dare giudizi, però basandomi su quello che hanno detto, hanno a cuore i problemi del carcere. Certo, spero che non siano state solo parole in un comizio, ma che poi seguano i fatti.

Il PD non è in prima linea con i detenuti, lo sono molto di più i radicali e Rifondazione, ma spero che qualcosa possa cambiare.

L’idea che mi sono fatta è che Angiolo Marroni conosca il carcere da vicino (..).

Hanno toccato diversi temi; la riforma della giustizia, i suicidi, il sovraffollamento, la mancanza di affettività, il reinserimento nel mondo del lavoro, la necessità di pene alternative.

E’ venuto fuori quello che noi già sappiamo, ma che per molti non è scontato, e cioé che il carcere non crea sicurezza, ma è solo propaganda!!

Sono contenta di averlo sentito dire da loro, perché di solito anche chi è di sinistra rischia di farsi condizionare dalla propaganda, e ede il carcere come qualcosa che fa sentire più sicuri. Magari non arrivano ai livelli di giustizialismo della destra, però, come dici spesso tu, il carcere fa prendere voti a destra e a sinistra.

Stasera, dati alla mano, hanno sfatato il mito dei forcaioli, dicendo che la recidiva diminuisce se è minore il tempo di carcerazioe, e, ancora di più, se in carcere non ci si va proprio, e si usano pene alternative.

Marrroni si è soffermato sull’importanza del lavoro in carcere. Lui lavora con i detenuti di tutto il Lazio, ma ha parlato soprattutto dell’Alta Sicurezza di Rebibbia. Qui i detenuti che non possono uscire dal carcere per lavorare all’esterno, lavorano dentro il carcere, ma sono pagati dalle cooperavite esterne, con un contratto come quello degli altri lavoratori.

Alla fine si è parlato di 41 bis, perché parlando dell’Alta Sicurezza, Marroni ha raccontato che molti hanno vissuto questa tortura. Io ero curiosa di sapere cosa avrebbero detto a riguardo, perché è un tema scomodo, e sono rimasta sorpresa quando ha detto chiaramente che è una tortura e andrebbe abolito! Però, appena Marroni ha finito di parlare ha preso la parola Favi e si è affrettato a dissociarsi, e a dire che è d’accordo su tutte le altre cose, ma il 41bis è un’istituzione che ha permesso di bloccare tanti criminali, quindi è importante, non si tocca, ecc.

Io mi aspettavo un discorso del genere… Il 41 bis adesso è diventato il simbolo della “brava gente”, che non vuole la mafia…

Mi è sembrato che Angiolo Marroni abbia già una sua posizione, e può permettersi di dire quello che pensa.

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Sono stata contenta di esserci andata.

Domani, cioè oggi (credo nel pomeriggio!), sento alcuni ragazzi che erano all’iniziativa. Se ho capito bene, a breve ce ne sarà un’altra, e mi fa piacere tenerti informato.

Il tuo libro “l’Assassino dei sogni” contina a ricevere apprezzamenti da chi lo legge. Ogni volta sono molto orgogliosa di poter dire che conosco l’autore.

Ora ti saluto, mi si stanno chiudendo gli occhi.

Un abbraccio forte,

Sabina

Riflessioni e opere di Nuvola

Giovanni Leone, detenuto a Voghera.. che preferisce essere chiamato NUVOLA.. ci ha inviato altre sue riflessioni e disegni. Oggi ne pubblico tre. Praticamente dopo ogni riflessione seguirà il disegno che l’accompagna (quindi il disegno che vedrete non va intenso come legato alla riflessione che segue dopo, ma viene dopo la riflessione, in sostanza il alto un testo e sotto il disegno). Il terzo disegno contiene già in se il testo corrispondente, come vedrete.. comunque l’ho trascritto lo stesso, per facilitare la lettura.

NUVOLA ha un modo particolare di scrivere, un suo stile..  che alcune volte può risultare un pò ermetico.. ma il senso globale si afferra sempre.

Beh.. vi lascio al.. in questo momento mi tornano in mente i film di Peppone e Don Camillo.. e stavo per dire.. vi lascio al.. Compagno Nuvola..:-)

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Le principali cause di solitudine e suicidi nel mondo dei detenuti sono l’ozio e l’isolamento o bbligato…

Approfondisco l’argomento della solitudine. Faccio riferimento a uno studio secondo il quale “un più intenso numero di suicidi si riscontra in presenza di depressione, e in mancanza di forme più tangibili di contatto umano”.

Poiché il sistema giustizia ha imposto ai detenuti l’ozio a vita e l’isolamento dalla società moderna, non agevola certo i rapporti  umani. Il calore che si comunica con un sorriso o uno sguardo non si può trasmettere attraverso una telefonata o una email, o tramite lettera. Non tutti sono in grado di fronteggiare le spese di un viaggio di 1300 chilometri… per andare a trovare un ergastolano che ha già scontato 18 anni di carcere. E molti familiari vengono e vanno  ai colloqui senza mangiare insieme, né conversare degli argomenti famigliari, né con i figli adolescenti che hanno bisogno di parlare con il proprio caro genitore, e vivono nella paura. Perché nella sala colloquio viene tutto registrato e filmato dalle telecamere. E per mancanza di privacy, si limitano nel comunicare… e anche per questo molti ragazzi si sentono soli. Anche perché tra il detenuto e i famigliari si può creare una siuazione in cui  si conducono vite in lontananza, su binari che raramente si incontrano.

Il senso di vuoto che può provare chi è sposato è una delle forme di solitudine più angoscianti. Questo senso di solitudine fa crescere il senso di isolamento. Inoltre, ci sono molti che sono single e vorrebbero tanto avere una persona accanto per potere soddisfare i loro bisogni emotivi.

La solitudine è anche un male sociale, che può portare all’alcolismo, a eccessi nell’uso di stupefacenti e persino al suicidio. Mentre per l’ergastolano si tratta soprattutto di suicidio.

E’ quindi importante indicare la soluzione… per fare il primo passo in modo da riuscire ad affrontare il problema di ogni essere….. “che fare'”

Alla prossima.. con affetto.. NUVOLA..  e single..

 

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Poiché la mia vita è stata sempre non facile. Anche quella sentimentale non è stata felice. Ho vissuto soltante delle fasi belle, dei momenti da cogliere e da ricordare, ma ma per troppo tempo. Non credo più a quelli che dicono con facilità “ti amo”. E la piega del mio cuore è così intensa che me la sono legata come un segno sul petto. E deve servirmi da frontalte tra i miei occhi, come mezzo di riflessione.

Perciò non rispondo quasi mai alle provocazione… cerco di lasciarli al loro modo di vivere… perchè non voglio più abbassarmi al livello dei bulli.

Il sesso fine a se stesso non basta. Si cerca sempre qualcosa di più. Può anche durare una notte ed essere intenso… mentre quando arriva la gioria e bussa al cuore, bisogna farlo con destrezza, affinché i frutti non diano la loro dolcezza non aprire i tui sentimenti.

Per me non è facile risvegliare la mia attezione e distogliermi da altri “pensieri dominanti” che sono le persone a me care… e le quattro mura dell’ergastolo sulle mie spalle, per un numero di anni 22 da ascoltare.

Poichè la ragione parte dalla testa e penso che anche per l’amore sia così.

Perciò in questo tempo sarò introspettivo.. voglio isolarmi su qualche NUVOLA selvaggia, e cominciare a fiorire nella vita. Magari non riesco a trarne gioia, così la mia forza di fede è diventata il mio guscio protettivo.. e nelle nuvole mi sento vicino a Dio..

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Quando non hai trovato negli altri quello che cerchi, è gunto il momento di contemplare per trovare dentro di te ciò che vuoi… perché i tuoi pregi sono quelli che sono interiormente nel profondo del cuore… possiamo conoscerci attraverso la natura… come il girasole che gira su se stesso per la sua fonte di calore… e vai nella felicità

Voghera 3.9.2010

 

 

 

 

IL COLLOQUIO

Salvatore Guzzetta (di cui abbiamo già pubblicato riflessioni, poesie e disegni in questo blog) mi ha inviato questo racconto. Che, seppure formalmente immaginario, di immaginario non ha nulla. Ed è di quelli che fanno male al cuore. Che ti lasciano dentro un’amarezza che non lavi, neanche consumassi tutto il sapone. Ti si chiude il ventre se provi a immaginarti in quella concreta situazione. Anni aggrappati alla spasmodica fame del contatto, alla finestrella che si apre sul muro degl striminziti colloqui concessi. Con quella dolcezza che è frammischiata a un pugnale, l’affetto già intriso della sua prossima mancanza. Il senso di colpa di sentirsi amato e allo stesso tempo voragine di dolore per sé e per gli altri. Il sorriso forzato, mentre gli occhi trattengono le lacrime.

I forcaioli non hanno tempo per queste cose. Loro sono dalla parte del bene, no? Che ce ne fotte che questi criminali non parlano abbastanza?, dicono. E che il carcere è un albergo? Fosse per me, continuano a ragliare.. chiave nel cesso, e basta con tutte queste sdolcinerie.

Nessuno va privato dell’amore e dell’affetto, diciamo noi. Fosse stato anche una belva. Nessuno deve stare appeso a un filo, nello spasmo interminabile dell’attesa, sotto ricatto perenne per ottenere obbedienza (sta calmo e non creare grane, o te lo facciamo saltare il tuo bel colloquio…), per poi baciare il coltello per prenderne il miele, e nello stesso tempo sanguinare.

Sembra un pezzo di teatro questo testo. Un pezzo che è messo in scena ogni giorno.. in tutti quegli strani pianeti, Fuori dal Mondo, che qualcuno chiama.. carceri…

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OPERA MILANO,  MARZO 2010

Cari amici, nella mia precedente lettera vi ho parlato delle non poche difficoltà per noi detenuti (soprattutto se ergastolani) nel poter effettuare colloqui con i nostri famigliari malati. Vorrei riallacciarmi al discorso COLLOQUI, rccontandovi una storia, che oserei defiire una commedia tragicomica  Qualcuno ci riderebbe sopra, ma c’è poco da ridere, perché quello che vi sto per raccontare succede veramente nella realtà careceraria, ed è per questo che cotesto racconto l’ho intitolato

IL COLLOQUIO

un carcere come tanti altri, una cella, poco spzio, due brande, un tavolo, due sgabelli e un teleisore attaccato blindato alla porta. Gianni stradiato suo uno dei letti osservava Paolo che era in attesa di essere chiamato per un colloquio con i famigliari. I suoi movimenti erano ansiosi, si capiva che stava vivendo un’attesa spasmodica, si lavava i denti, si radeva e si lavava le ascelle, poi si pettinava.Mentre faceva tutto ciò non smetteva mai di fmare. Di tanto in tanto lanciava un’occhiata al canceo, poi si rimetteva a camminare avanti e indietro in quel poco  spazio della cela. Di nuovo si pettinava, ritornava in bagno e si rilavava i denti, infilava du cheinggum in bocca e ritornava a camminare.

“Bastaa cazzooo!”, gridò forte Gianni. “E’ da questa notte che ti giri e rigiri nel letto, ti alzi, cammini, sbuffi, scatti e freni di colpo, come se ti stessi allenando per le Olimpiadi. Hai cominciato a lavarti che era ancora buio”.

Paolo sbuffando, “Questa mattina viene la mia famiglia capisci? Sono tanti mesi che non li vedo e ci tengo a fare bella figuara”.

“E c’è bisogno di lavarti i denti dieci volte?”

“Qui dentro abbiamo tutti un alito da avvoltoi”

“Parla per te”, replicò Gianni.

Paolo sputando il chewinggum e mettendosene altri due in bocca: “Ora debbo vestirmi!”

Gianni si era alzato e seduto sul ciglio del letto, “certo, non puoi andare a colloquio nudo!”

Paolo indispettendosi: “Perché non dovrei vestirmi secondo te?”

“Sì, ma non c’è tutta questa fretta, ancora sono le 7 e non ti chiameranno prima delle 9”.

Paolo aprì il suo guardaroba: “Che mi mettò? Voglio che mia madre mi trovi in forma, che mio padre no mi critichi”.

Dall’armadio estrae un pantalone, una camicia, li mette sul letto e li osserva, “no, non posso, sono troppo spiegazza”. Li rimette nell’armadio, prende un altro paio di pantaloni, un’altra camicia, li stende sul letto: “che ne dici di questi? Ti piacciono? La camicia azzura e i pantaloni neri stanno bene insieme, no?

Gianni annoiato guardando altrove: “una meraviglia!”

“Mi prendi in giro? Che c’è, non ti piacciono?

Rimette tutto apposto: capito, non ti piacciono. Hai ragione. Meglio una camicia a quadri e un jeans, più giovanile e più spontaneo”. Estrae dall’armadio jeans e camicia a quadri, li indossa, si infila le calze e, da sotto il letto, prende un paio di scarpe da ginnastica bianche e li mostra al compagno: “Vedi? Ieri le ho lavate, vedi come sono pulite?!?”

“Pulite, pulitissime”, con quel suo sorriso ironico rispose Gianni.

A Paolo venne il dubbio, e guardando le scarpe: “Dai non scherzare, si capisce che sono pulite?”

“Sì, si capisce lontano un miglio”.

Paolo si infila le scarpe e da sotto il materasso tira un sacchetto di plastica e lo riempie: due pacchi di brioss, quattro succhi di frutta, una bottiglia d’acqua, riguarda dentro il sacchetto, gli sembra poco quello che ha messo. Non contento infina un’altro pacco di brioss.

Gianni che lo sta osservando. “Tutta quella roba di porti dietro?”

“Certo, faccio capire ai miei che non mi manca niente”.

Gianni: “Quanto tempo hai detto che non li vedi?”

Paolo si incupì, poi rispose: “Cinque mesi e dieci giorni. E’un sacrificio e una grande spesa per loro venirmi a trovare. Poveretti, si sforzano nonostante i problemi che hanno. Cercano di farmi capire che, nonostante tutto, continuano a volermi bene, e si sforzano di continuare a vivere e a esistere per me, e io?”

“E tu?”

“E io mi vergogno di non essere stato quel figlio che loro desideravano, e ora sento tanto la loro assenza. Ma quando un uomo infrange le regole è giiusto che paghi per i suoi errori. Però non dovrebbero isolarti, enderti impossibilie la vicinanza dei tuoi affetti principali. NOn dicono tutti che è proprio chi ha avuto problemi nella sfera affettiva famigliare che finisce più facilmente in carcere?

“Dovresti provare a dirlo a mia moglie e ai miei figli”, rispose Gianni.

Paolo lo guardò come a non capire, poi rincarò la dose: “Se per anni allontani un uomo dalla società , dalla famiglia, come potrà reinserirsi, quando avrà ascontato la pena?”

Gianni: “Sai che non ci avevo pensato? Come potrò reinserirmi io con quel tipo di famiglia che ho?”

Paolo continuò: “Chi lo aiuterà un detenuto, un avanzo di galera, quando uscirà?”

Gianni: “I miei fra play station, computers e televisione, saranno parecchio impegnati”.

Paolo; “Tu ci scherzi, ma questi dei nostri problemi affettivi se ne fregano. Pensa che, per ragioni di opportunità (come dicono loro) si può essere trasferiti dall’oggi al domani, da un capo all’altro della nazione. Te lo immagini? Te lo immagini cosa significa per te, ma ancheper la tua famiglia’”

Gianni con sarcasmo: “Bhe, per la mia famiglia non sarebbe una tragedia!!”

“Sì, sì, scherzaci pure, lo sai bene in realtà cosa sono i trasferimenti. Strumenti di repressione per chi protesta, ricatti. Qui è tutto un ricatto, persino quelle poche ore al mese di colloquio con i nostri famigliari. Possiamo vederli soltanto se ci comportiamo bene. Sotto ricatto capisci? E le telefonate? Che ci fai con quattro telefonate di dieci minuti al mese? Dieci minuti ti passano in un baleno. Come puoi toglierti la voglia di affetto che hai?”

Gianni sbuffando: “Ascolta Paolo, qui non siamo in un albergo a cinque stelle, come a volte cercano di fare credere alla gente!! Questo è un lluogo di afflizione e di espiazione, ma anche fuori non è un paradiso”.

Paolo: “Se va bene, discorso giusto. Ma tu pensi che c’è pena più grande della privazione della libertà?”

Gianni: altro che, c’è la perdita della speranza!!”

Paolo: “Hai ragione. Qui fanno di tutto per fartela perdere.”

Un rumore di passi, una guardia arriva davanti al cancello:

“Calcagno Paolo colloquio”.

Sbalzando Paolo: “Sono io”. E in preda al panico: “Come sto? Ho l’aria stanca? Sembro smagrito?” Incespicando va a guardarsi allo specchio, prende una bottiglietta di profumo e se ne spruzza un pò in bocca, poi afferra il sacchetto con i dolciumi, “ci vediamo dopo!!”

Gianni fece un sospiro di sollievo, si risdraiò nel letto, e ritornò a dormire.

Non erano trascorse che poche ore, si riaprì il cancello e con l’aria stanca, un sorriso da ebete stampato sulla faccia, rientrò Paolo, che subito si accasciò su uno degli sgabelli.

Gianni svegliatosi: “Già di ritorno?” Poi scese dal letto, e preparò il caffè, accese una sigaretta, e la diede a Paolo e lo guardò interrogativo: “Che hai? Non sei contento di aver rivisto i tuoi? Infondo sei fortunato tu!!”

Paolo: “Meglio di tutti sta chi non ha nessuno, chi ha perso tutto”.

Gianni: “Ma perché dici così? Eri così contento prima di fare il colloquio!!”

Paolo: “Non spero più a niente”.

Gianni: “Dai, un uomo senza speranze non ha più futuro. Tu sei giovane, non rinunciare alla speranza”.

Vi fu un attimo di silenzio. Poi un fischio, il gorgoglio del caffé che saliva.

Paolo: “Andiamo tutti verso il precipizio!!”

Gianni versando il caffé nei bicchierini di  plastico: “Può darsi, ma dimmi cosa è successo al colloquio”.

Paolo cercò di rianimarsi un pò sorseggiando il caffé, poi:. “Quando sono arrivato nella sala colloqui avevo il respiro affannato, ero già tutto sudato, sai l’emozione?”

Gianni: “Certo, capisco”.

Paolo continuò: ” Con me c’erano altri detenuti, tutti tirati a lucido, profumati e allegri. Mia madre mi ha guardato e subito si è messa a piangere. Com’è dimagrita! Mio padre è invecchiato!”

Gianni: “Sicuramente saranno stanchi per il lungo viaggio”.

Paolo: “Certo, sicuramente erano stanchi del viaggio. C’era anche la mia ragazza. Mi ricordo la prima volta che è venuta a trovarmi. Era truccata, carica di fronzoli, profumata, molto sexy. Ma ha capito da sé che vederla così mi faceva solo soffrire. Oggi era vestita in modo molto semplice, pettinata in maniera naturale e non da vamp, e portava una catenina al collo della Madonna. Senza trucco. Era triste e si vedeva. Ma aveva lo sguardo duro, forte; come se volesse dirmi che è dalla mia parte e quindi non si stancherà mai di me. Triste, ma fiera, capisci?”

Gianni: “Capisco, capisco!”

Paolo continuò: “Quando li ho visti, il mondo si è fermato. Avrei voluto dire tutto. Cercavo le parole, ma non riuscivo ad aprire bocca. La voce era come soffocata in gola. Avrei voluto scavalcare quel muro e abbracciarli. Far loro sentire quanto li amo”.

“E loro?”, chiese Gianni?

Paolo: “Hanno mentito. Hanno detto che mi trovavano bene, proprio in forma. Mi hanno portato i saluti degli amici, dei parenti. Sii paziente, mi ha detto mia madre. Tornerà tutto come prima, sarai libero, sarai di nuovo come quando eri bambino. Mi sentivo un verme, volevo chiedere loro perdono del dolore, dell’umiliazione, dei disagi che provavano per colpa mia”.

Gianni: “La tua colpa la stai scontando, ma tu a colloquio sempre zitto!”

Paolo: “No, dopo un pò sono riuscito a parlare, ho detto che non mi manca niente, che mangio, bevo, che i compagni sono gentili, che l’avvocato di tanto in tanto viene a trovarmi e mi dice che ci sono buone possibilità, che presto ci saranno delle depenalizzazioni. Tante bugie per tranquillizzarli, per fali sentire contenti!”

Gianni: “E loro che altro ti hanno detto'”

“Hanno parlato del viaggio. Del tempo che piove sempre, di casa di mio fratello che finalmente ha trovato un lavoro, di mia sorella che a primavera si sposa. Poi, è successo che non avevamo più niente da dirci, siamo rimasti in silenzio a guardarci, il tempo è volato, ed è venuto il momento dei saluti, delle raccomandazioni, baci a distanza, mia madre sempre in lacrime, mio padre che le cingeva le spalle”.

Intervenne Gianni: “E’ normale, e logico, che vuoi'”

Vi fu un breve silenzio, poi Paolo riprese: “E tu Gianni cosa hai fatto?”

Gianni scoppiò in una sonora risata: “Sai cosa ho fatto io? Ho dormito e ho sognato che anche io ero a colloquio”.

incontro…..

Siete lì..

Siete tutti insieme..

Vedo, sento i vostri occhi.. Che si cercano, muti, con mille domande..

Vedo le vostre mani che, ansiose e turbate, si stringono..

La rigidità dei vostri corpi tesi per l’emozione di attimi,

forse unico incontro che avrete mai..

quando sai che ogni respiro è da non dimenticare,

ogni gesto o parola strozzata da imprimere nella memoria,

quando sei di fronte a qualcosa di più grande della tua stessa vita,

quando sai che scrivi in modo indelebile nel libro dell’Anima del Mondo

quando sei consapevole di questo..

come riesci anche solo a inghiottire la saliva, a mandarla giù..

come fai a muovere un solo passo…

tra voi milioni di parole non dette ma bellissime nel vostro abbraccio di saluto finale

Alfredo.. Carmelo.. Ivano.. cosa penserete in quell’istante..?

“Quando ci rivedremo? Ci rivedremo ancora?”

E il vostro abbraccio sarà l’abbraccio del mondo, della madre terra, di tutte le stelle, del cielo, dell’infinito, sarà l’abbraccio di tutti noi..

E dopo Alfredo?

Tu vedrai le schiene di Carmelo e Ivano mentre rientreranno in cella..

E i tuoi pensieri saranno macigni, come rocce che sgretolano e scendono dai fianchi delle montagne

E rovinano giù, trascinando altre pietre…

E forse una lacrima scenderà dai tuoi occhi, scorrerà sul tuo viso

e si fermerà sul tuo cuore, dove gli Uomini Ombra ormai vivono.

marialuce

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